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I fasti del grigio – Luca Benassi

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Più che senso di angoscia, quello che pervade la creatura nella coscienza del suo vivere-per-la-morte e che Kierkegaard per primo ricondusse alla paura del nulla, di fronte all’iterazione insignificante del quotidiano Benassi avverte piuttosto inerzia, straniamento. Gli atti ordinari, il cartellino da timbrare, la cena che lo attende alla medesima ora, i paesaggi urbani mai suggestivi subiscono in questa poesia una sorta di deformazione, si dilatano in meccanicismo, irrituale metafisica dell’oggetto e della condizione assoggettante, che invade tutti i cieli, tutti i progetti:

tutto è ripetizione
come il panorama della stanza
che muta appena
quando rientro la sera.

Ne sarà valsa la pena?

Lo coglie nell’inesauribilità dei riti della sopravvivenza una sorta di spossatezza di fronte al sistema chiuso del reale, in un’ontologia negativa, nell’assenza dell’essere come fine e gnoseologia. Dal trogolo dei giorni non si alza la testa. Da questo punto di vista il primo libro è esemplare e trasmette sensazione raggelante.

L’azzurro cartellino
lo straordinario notturno
della quotidiana inconcludenza.

Il tempo dell’io alla Jaspers è insomma tempo pietrificato, nel senso che è immobile in se stesso e nel suo marmo coinvolge anche l’essere umano, travolto dal male di vivere che in Benassi non scade però mai nell’accidia, ben praticata da altri personaggi solo letterari, alla Svevo, per intenderci. Resta invece al suo posto, a descrivere e a subire la pochezza umana, adattandosi al cinismo del disegno cosmico, mentre il mercato globale impone la tirannia del denaro.
La vita comporta una serie di naufragi che, a parere di Ungaretti, il vero lupo di mare affronta senza arrendersi. Non per Luca Benassi che non ha moniti o speranze per sé e ancor meno per i compagni di viaggio e anzi naviga in un solipsismo –le rovine del silenzio– che rende conto anche meglio di quanto sia profondo lo strazio.
Pure questa poesia sembra adombrare una maglia che non tiene, che dovrebbe consentire come in Montale una fuga dal dolore e dall’insensatezza dei gesti, invece mi piace ravvisare sotto il tappo che non chiude un’ira repressa, un’insurrezione dell’individuo, un urlo, se non proprio un disegno macabro che lo sottragga coraggiosamente dal rotolare a vuoto nelle maglie tempo –lo dico/prima o poi succede.
E poco più avanti:

però lo dico di quel tappo
che non tiene
che prima o poi
salta
il fosso dell’irreparabile.

Difatti, dell’ultimo, definitivo naufragio, di tanto in tanto, Benassi afferma di porsi in attesa con gioia, di sicuro per sfuggire all’abuso che costringe al di qua della linea d’ombra che non contiene la meraviglia e il mistero, secondo l’accezione di Conrad, ma solo inerzia e monotonia.

Io sto nei margini
nello spazio che non c’è.

Bisogna tuttavia notare di tanto in tanto un interlocutore, un tu, a cui confessa i suoi errori e fallimenti, che si possono considerare però intrinseci alla vita, e allora si comprende che, nella devastazione del nostro esserci, il sentimento della bellezza e quello dell’amore sono chiamati a sostenere l’anima mentre siamo impegolati nella guerra: entrambi a costituire l’accettabile unica contropartita a questa dura guerra.
Il titolo della raccolta e quelli delle sezioni sono emblematici. La poesia si concentra appunto sul grigiore della vita, usando termini crepuscolari, ma, ovviamente, senza l’ironia gozzaniana, senza sentire la tana come rifugio, e il lessico impegnato sovente fa pensare a una prigione.
Concezione dell’uomo di un mesto pessimismo, dunque, che trama il verso di una profonda malinconia e il secondo libro che acquisisce lontani riverberi di altri assedi, sembra spostare all’indietro il disagio umano, come abitante di tutte le epoche ed etnie.
Questa sezione, che costituisce il secondo libro, intitolata appunto L’assedio appare più vibrante rispetto alle altre, con qualche accenno di ribellione, ma alla fine il poeta continua a restarsene chiuso nella sua immedicabile solitudine.
Benassi ci porge la sua poesia in uno stile che fa della naturalezza il suo crisma. Attaccato al quotidiano il lessico sobrio e musicale, con la stessa limpidezza del messaggio esistenziale, tanto che la poesia scorre sempre senza preziosismi, intralci o stravolgimenti semantici, in un ritmo adatto.
La giovane età e la maturazione già compiuta lo inquadrano di sicuro su uno scenario nazionale.

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