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Sei Commedie In Commedia – Edoardo Erba

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Parliamo di drammaturgia contemporanea con Sei commedie in commedia di Edoardo Erba, l’ultimo libro dell’autore (la sua terza raccolta di drammi dopo Maratona di New York e altri testi), che, come introduce il titolo con un barocchismo, comprende sei commedie: Vaiolo, Margarita e il gallo (in questi giorni al teatro Arena del Sole di Bologna con la regia di Ugo Chiti), Muratori, Animali nella nebbia (sacra rappresentazione), La notte di Picasso e Intervista.

Il libro, edito da Ubulibri (casa editrice milanese sempre attenta ad indagare le vie del teatro contemporaneo) riassume il libro da un punto di vista critico nel retro copertina affermando che si tratta di: “Una raccolta di commedie in commedia, ovvero di teatro nel teatro, dove la realtà si confronta con la finzione e l’attualità sconfina in tempi lontani”. Ed è proprio su questi principi che si dipana la poetica del drammaturgo, una poetica che esalta appunto la finzione, il metateatro e il coup de théâtre oltre che la contemporaneità, una poetica che inoltre predilige più chiavi di lettura, una semplice e immediata e una gratificante per gli addetti ai lavori. L’autore sembra essere infatti consapevole delle evoluzioni della drammaturgia moderna e contemporanea, che richiama spesso pur distaccandosene sempre in maniera originale. Così, mentre si legge ci si può trovare in un discorso che riecheggia nella mente come pirandelliano, ma che non lo è; e ci si trova inaspettatamente catapultati in un atmosfera beckettiana o pinteriana, per poi tra le righe di un monologo (usati con parsimonia da Erba) ritrovare la parola del Testori e infine lo spettro della Signorina Giulia di Strinberg che si aggira in un teatro abusivamente venduto per farne un magazzino di un supermercato ovvero come nelle mani di Ubu.

È mirabile, dunque, come l’autore riesca a far coincidere una scrittura semplice spesso iperrealistica, che sfrutta dialetti e personaggi-macchiette comuni alla contemporaneità inseriti però in una macchina teatrale pirotecnica e surreale, che  recupera un mondo, quello immaginario, spesso oggi dimenticato e che perciò richiama la moderna filosofia esplicata in Patafisica e arte del vedere di Braudillard, contro un estetica della banalità e per un’estetica che è: “quella radicale del mondo, quella che si riferisce alla magia delle apparenze, l’illusione vitale di cui parlava Nietzsche: un’illusione che è più fondamentale dello stesso reale.”

 

Mi accingo ora a una breve trattazione dramma per dramma con l’aiuto dell’introduzione di Franco Quadri e di Autori in scena, testo critico che prende in considerazione sei drammaturgie italiane contemporanee tra cui quella di Erba, scritto da Tiberia de Matteis.

 

 

Vaiolo

Come: “due bizzarri e satirici movimenti” Tiberia de Matteis ci presenta questa pièce, che purtroppo in questa edizione è ridotta a un atto unico rispetto al dattiloscritto inedito del 1997. Ne rimane comunque, secondo quello che posso supporne, la parte più rappresentativa della trovata geniale dell’autore.

La scena si apre con un professore e un archeologo del futuro che dopo essere scesi sotto terra esaminano il luogo che hanno scoperto: un teatro. Ecco che il discorso si fa sin dall’inizio metateatrale. Erba però  “non mira a metafisiche analisi pirandelliane” come afferma Quadri, ma ricerca proprio nel luogo teatro l’input per il dialogo (come anche in Muratori) e ne ricava significati antichi in una nuova prospettiva. Così dal dialogo dei due attori veniamo a scoprire che il teatro era un posto di cura per il vaiolo e che con l’avvento delle comunicazioni di massa la malattia si estinse. Teatro dunque come posto di cura. Ma non solo ci si chiede anche con velato intento estetico che cos’era uno spettacolo e allora il professore risponde: “Un azzardo”. Questo deducono i due che della loro epoca fanno trapelare poco: i soldi non hanno per loro l’importanza che hanno per noi ma l’acqua è radioattiva, il caffè comunque c’è ancora e loro sono spie del governo pronte a sparare perchè non vengano diffuse notizie ‘pericolose’ e i cui colleghi d’ufficio non fanno altro che giocare a carte tutto il giorno. Chissà, forse un accenno di uno sguardo ad un’era post-industriale che però non appare esattamente paradisiaca.  

Interessanti a riguardo, inoltre, sono le considerazioni di De Matteis che giustamente individua nel dramma la tematica della morte del teatro e il sentimento di: “inadeguatezza epocale della missione scenica” che si scorge tra le righe. Una critica amara dunque ad un’umanità che cambia ma non migliora?

La scrittura si compone di un dialogo incalzante con battute brevissime, ne deriva un linguaggio molto verbale, diretto, scarnificato, tanto che spesso l’uno completa il discorso dell’altro. Inoltre sempre citando Autori in scena: “l’azione si gioca tutta nell’immediatezza”. Infatti tutti il discorso è incentrato nel prendere alla lettera l’hic et nunc ed esaltare così la caratteristica che più è propria del teatro rispetto agli altri mezzi di comunicazione.

 

 

Margarita e il gallo

Pièce in tre atti è denominata dai cartelloni come commedia erotica ma l’erotismo appare solo un escamotage per riprendere il discorso sull’anima. E per questo l’autore giustamente e con coscienza critica ci riporta indietro nel tempo, probabilmente in un alto medioevo quando il discorso letterario erotico non era ancora contaminato dallo spirito libertino o esistenziale o ancora dal discorso sui sensi di matrice proustiana (anche se troviamo sicuramente letteratura minore medievale che esalta l’aspetto più carnale dell’esperienza erotica). Il corpo perciò e prima di tutto contenitore dell’anima in questa vicenda che riprende una comicità degli equivoci e due linguaggi: quello della serva, un dialetto lombardo italianizzato e comprensibile che darà vita al cosiddetto linguaggio semplice dell’anima, e quello degli altri personaggi, un italiano di matrice arcaica.

Si apre dunque il sipario e troviamo Margarita la serva conversare con la padrona di casa e dopo poche battute il discorso si orienta nel rimembrare le magie della madre di Margarita che era riuscita a scampare al rogo scambiando la sua anima con quella di un gatto, trasferendosi dunque nel corpo dell’animale. Ecco che fin dal principio il discorso si fa metafisico, riprendendo forse contenuti cinematografici noti nell’immaginario comune. Poi arriviamo a sapere che il marito intende, servendosi del parroco di cui in cambio pubblicherà un libro, convincere la moglie ad intrattenersi con il cugino del Duca per averne poi dei favoritismi. La moglie però si allontana per l’intera notte dalla casa poiché la madre è in fin di vita, così il marito decide di servirsi di Margarita per raggiungere il suo scopo. Ma quando la serva capisce non ne vuole sapere, dice: “Ma giò un’anima anca mi” e allora si appresta ad un monologo, l’unico del dramma, che richiama alla mente la scrittura di Fo e a livello formale e contenutistico, ma questo ad viam negationem, il monologo di Riboldi Gino in In exitum di Testori. Sia Gino che Margarita invocano la madre, ma mentre Gino in fin di vita troverà conforto solo tra le braccia di un Cristo redentore Margarita riuscirà a venire in contatto con la madre poiché lei, strega si presenterà a lei nelle sembianze di un calabrone! In questa associazione perciò è come vedere due facce della stessa medaglia, una tragica e l’altra comica. Poi il dramma prosegue con lo scambio dei corpi (o delle anime) tra Margarita e il suo padrone e l’arrivo del Visconte voglioso; e allora vi lascio solo immaginare come andrà a finire.

Comunque è interessante notare come la magia sia verso la fine ricollegata al sogno come nella famosa commedia shakespeariana Il sogno di una notte di mezza estate della quale mi è parso ritrovare alcuni termini affini tra cui: “come una giumenta al gioco” anche se non vi è alcuna affinità tra i personaggi che pronunciano questa simil battuta. Inoltre è altrettanto interessante notare come questa volta il gioco metateatrale si fa più ideologico infatti quando la serva si traveste da padrona prima dell’incantesimo ragiona sul fatto che anche la padrona in realtà è una serva…

 

Muratori

Nulla di ciò per cui prima si moriva è ancora importante” ci ricorda lo spettro della Signorina Giulia di Strinberg che inaspettatamente compare alla fine del primo atto di questa commedia i cui protagonisti sono due muratori che si trovano a costruire un muro in un teatro abusivamente venduto per farne l’ampliamento di un magazzino per un supermercato. E così Tiberia de Matteis ne individua il: “sacrificio dell’arte in nome della produzione”. Il testo è costituito da due atti scritto in dialetto romano, quello italianizzato e parlato dell’oggi, tranne i momenti in cui parla Giulia. Sempre come afferma De Matteis: “Il tempo è scandito dalla vera costruzione di una barriera di mattoni e calcina che identifica la frattura definitiva tra passato e presente, fra immaginazione e vita, tra poesia e shopping.” E così il muro nasconde un’altra realtà, una realtà effimera che è quella dell’immaginazione che viene rappresentata da Giulia, emblema dell’inaspettata bellezza e potenza comunicativa della vita, di cui entrambi i muratori si innamoreranno perché lei “M’ha guardato dentro”; prima l’uno in modo sensibile poi l’altro alla fine del secondo atto in modo volgare se ne infatuano. Così alla fine del dramma si mettono a litigare e fanno crollare il muro, e allora mi viene in mente Il castello inglese dello scrittore surrealista De Mandiargues dove alla fine del romanzo il castello esplode portandosi via la necrofilia insita nelle sue mura e da esso salgono in aria due mongolfiere simbolo di una nuova fantasia e immaginazione artistica; così l’ultima scena di Muratori mostra dietro il muro caduto il fienile del dramma di Strimberg e una Giulia che sorride in modo enigmatico! Ecco dunque anche con Erba rappresentata la vittoria dell’arte.        

 

 

Animali nella nebbia

(sacra rappresentazione)                                          

Questo testo è il più particolare, il più sperimentale, sia per la forma che per il contenuto pur mantenendo i principi capisaldi della sua poetica che si divide tra l’iperrealismo e il surreale. A livello formale bellissime sono le note di regia romanzate e come afferma Quadri nell’introduzione: “una scrittura da racconto, dove l’autore confessa di ignorare i perché delle sue creature e le loro battute si susseguono nella pubblicazione senza indicare i nomi dei personaggi che le pronunciano”. A livello contenutistico potrebbe essere un bellissimo film da girare con una ‘vecchia’ telecamera. Ha il sapore di un nuovo cinema d’autore. A livello teatrale personalmente potrebbe essere uno spettacolo itinerante all’aperto. È comunque stato rappresentato al Teatro Metastasio di Prato il 9 novembre 2005 con la regia di Magelli e purtroppo non so dire di repliche.

I personaggi questa volta sono sei: una coppia di sposi pluridecennale di cui il marito, Francesco Fumi, è un imprenditore, un extracomunitario africano: Oba, uno sfruttatore di extracomunitari: Alfonso, un ragazzo con un tamburo che batte per spaventare gli animali così che non cadano nel mirino dei cacciatori e Gabriella, una ragazza che si occupa di scenografia. Sostanzialmente, però, i personaggi sono divisi in deboli e arroganti.

Tutto si conclude in un week-end dal quale la vita di tutti ne risulterà sconvolta…in una sacra rappresentazione assolutamente inusuale che lascia allo spettatore / lettore la libertà di individuare il sacro in questa vicenda tanto quotidiana quanto surreale che non riassumerò perché questa volta l’autore a mio avviso ha saputo superarsi e nulla potrebbe essere più denigrante di un riassunto di questo dramma in qualche modo anomalo anche per la scelta dello spazio che non necessariamente deve essere unico, come sempre avviene negli altri drammi, e soprattutto perché l’autore riesce ad usare la componente surreale e metafisica in modo diverso, meno esplicito e descrittivo, finalmente dona al surreale il posto che merita: l’aria.

 

 

La notte di picasso e Intervista

Prendo in considerazione questa volta due atti unici insieme per la loro brevità (il secondo è praticamente uno sketch) e per la loro atmosfera similare. Entrambi trattano di personaggi esaltati ai confini della ragione. Così riprendendo una frase di De Matteis ci troviamo di fronte a: “le più insolite epifanie e trovano concretezza sogni o incubi che superano ogni aspettativa come se la banalità, la routine, l’alienazione dell’oggi fossero in grado di partorire mostri degni delle fiabe per adulti.”

Il primo ha come protagonisti due matti che a sentir loro stanno creando una nuova estetica in uno spazio e un atmosfera beckettiana dove però sembra risolversi la loro attesa di un’idea per concludere una scena di film anche se in realtà non stanno concludendo proprio nulla perché non hanno inventato nulla di nuovo.

Il secondo invece tratta in un dialogo da intervista dell’ultima produzione di un giocottalo per bambini che scoppiando li lascia andicappati per tutta la vita.

Perciò concludendo con un’altra affermazione di De Matteis: “La banalità innocua e ripetitiva del quotidiano incontra allora in un lampo fulmineo la potenza dell’irreale”.

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