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La collagista – Francesca Mazzucato

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Arkadia Editore (Cagliari, 2020), pag. 114, euro 13.00.

Questo libro segna il passaggio, direbbero i puristi della forma e dei colorifici, della mia cara e adorata Francesca Mazzucato, riferimento di questo mio piccolo mondo da anni, da scrittrice madre e madrina dell’erotismo letterario più intransigente e quindi sublimato, alla nuova vita di “artista visiva”; infatti, la chiusa fisica del libro “La collagista”, vergata ‘a mano’ dall’autrice, sussurra un ringraziamento dedicato alla libreria Trame “dove si è tenuta la mia prima esposizione personale italiana” e marca: “Questo libro libro è strettamente collegato alla mostra, tappa importante della mia storia di artista visiva”. 

Il corpo grande di Mazzucato monta su un nuovo Train dù reve, dove l’autrice Anarchiste ha dismesso l’amore cattivo facendo, lontana dalle web cam e dalla Bologna segreta, facendo una romanza dell’estraniazione creativa, sempre, di certo, inzuppata nelle infinite sfaccettature e movenze del sesso. 

La protagonista senza un nome ma con tante vite dell’ultimo romanzo breve di Mazzucato vive un esilio tanto aristocratico, a vedere le passione, quanto fino in fondo popolare. Nella strade caricate da una moltitudine d’accattivanti solitudini. Ben oltre la lussuria, insomma. Nel cuore pulsante del desiderio. 

F. abita un albero parigino molto più domesticamente d’una casa da focolare. Seppur sola, qui infatti F. sta senza storie oramai plastificate. Ché al massimo oltre ai suoi collage, qui escono e entrano solamente gli uomini meritevoli. Epperò mentre il film della quotidianità porta gemiti e sussurri altri, perfino ammirati dalla porta fronteggiante quella della nostra F. 

“Sono una collagista. (…) Aggiusto il mio mondo  risistemandolo come voglio”. “Noi donne ci sediamo spesso, perché facciamo così tante cose che stancarci è un attimo, ci sistemiamo per sistemare il rossetto, per mandare un messaggio clandestino, ci sediamo per provare orecchini nuovi, io mi siedo per lasciarmi riempire dalla vita e poi creare”. Ho estratto queste poche frasi dal testo, in quanto sono formule minute ed espressioni altamente consacranti l’immagine della protagonista, universale evidentemente, di quest’ultima opera di Francesca Mazzucato. 

Il bar di Gilbert, gli scatti fissi delle riviere francesci, liguri e romagnole, i libri incrociati sulla Senna e ogni tentazione e opportunità amorosa fortificano la ricerca creativa di F. Che parte dal trovare gli strumenti, ovvero fili e tutti i materiali che serviranno a comporre il collage, sino alla redazione del quadro finale.

Quando F. descrive minuziosamente la sua tecnica, vedi nell’invecchiare la carta con tè o caffe, ci sta aprendo una finestra alla quale c’affacciamo col sorriso del favore. In attesa dell’apparizione di questi gesti di corteggiamento in arrivo. Al momento di sospensione: “Si fanno cose normali, quando non si è ancora amanti ma si sa che lo si diventerà. Ci sono poche certezze, passeggiare, guardarsi attorno, restare in silenzi pieni di risposte non dette e di domande non fatte. 

Un’altalena tra la straziante e potente dedizione devota verso un uomo che cominciava a lisciare le parole soltanto per il sesso e i comportamenti libertini successivi e altri con uomini poi trovati fra il bicchiere e la terra di frontiera.

“Perché sono qui? Quei polpastrelli, leccarli, sentirli, succhiarli. Sono qui per questo desiderio. Miele. Parole di miele. Bugie di miele. Drink di colori diversi. Una carezza. Le dita, la bocca, la pelle. Bugie di miele, poi solo gemiti e bugie e rammarico, anche”. Queste parole possono vivere come la forza d’un collage dedicato. E se inizialmente ci portano una bellezza pura, alla fine ci lasceranno l’amaro in bocca, il veleno d’una fine. Ed entrano come la punta d’un coltello nelle nostre provate carni.

Questo in tutta evidenza è il racconto d’una storia gigante. D’amore gigante. Su tutte. Una vicenda di destini tanto potente da favorire un percorso artistico inedito: “Per me era l’arrivo a Z. il porto dove tornare, l’assenzio purissimo”.

In questo libro di Francesca Mazzucato ricorrono spesso alcuni termini. A cominciare dalla parola “frontiera”. Ma ancor più volte è pronunciato la parola “crepa”. Se nel primo caso abbiamo un senso pieno di luogo e stato mentale, nel secondo viviamo tutto il tormento emozionale che rende la via di transito dell’autrice nella solita, per lei, zolla fiorente di passione e scrittura.  

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