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Il Diavolo veste Prada

6 min read

 

 

Interpreti:

Anne Hathaway, Meryl Streep, Adrian Grenier, Simon Baker, Stanley Tucci, Tracie Thoms, Emily Blunt, Eric Seltzer, Rich Sommer, Stephanie Szostak

Regia

David Frankel

Sceneggiatura

Aline Brosh mckenna

Data di uscita

Venerdì 13 Ottobre 2006

Generi

Commedia, Drammatico

Distribuito da

20TH CENTURY FOX ITALIA

 

Sono corsa a vederlo, anche se non proprio all’uscita, ho visto le locandine mentre ero a Montecarlo, ho frenato il desiderio e l’aspettativa, ho aspettato di tornare in Italia, ho accettato il supplizio provato ammirando il sito favoloso che ne anticipava l’uscita, http://www.foxinternational.com/devilwearsprada/. Ci voleva un giusto momento, tranquillità, relax, voglia di distrazione. L’ho trovato, con due amici, uno dei quali, in partenza per Parigi, ha gustato come un morbido aperitivo la parte che si svolge nella capitale della moda. Come chiunque potrà testimoniare, la sala, gremita, era piena di donne, a volte con fidanzato al seguito, volutamente poco interessato, con l’aria di chi sta facendo un supremo sacrificio per il bene del suo rapporto di coppia. Mi è parso un film medio. Avrei voluto amarlo pazzamente. Avrei voluto buttarmi dentro le immagini a capofitto, ritrovare la leggiadra perfidia del romanzo, avrei voluto farmi catturare dai tempi e i ritmi di un film- commedia di una potenza capace di far sussultare il nostro contemporaneo e i suoi pilastri fondanti.  Invece non mi ha lasciato nulla, è stato come bere velocemente un calice di champagne poco fresco. MI è sembrata una elegante ma frammentaria esibizione sontuosa del superfluo, del vacuo, dell’apparenza che nasconde una sostanza vuota e deprimente. Secondo alcuni (come potete leggere qui http://filmup.leonardo.it/ildiavolovesteprada.htm), si tratta di una pellicola che ha   tutto per diventare un vero e proprio cult della commedia americana, frivolo, divertente, ma anche più profondo di quello che vuole dare a vedere. Invece, anche sforzandomi, è il senso a pezzetti della storia che ho colto, avendo, prima , letto e riletto il romanzo, esempio glorioso di una letteratura “per pollastrelle”; la famosa chick-lit che io seguo con grande attenzione perché intercetta il gusto di tanti lettori e rivela elementi della nostra modernità (o post modernità) in maniera più esplicita di tante indagini sociologiche. Il film invece somiglia a tanti che col tempo si sono archiviati da soli. Filmetti carini, eleganti, con attrici belle e alcuni parti- cameo da ricordare (in questo caso, ad esempio, quella dello stilista Valentino) Certo, si offre bene, ma i dialoghi non spiegano abbastanza la vicenda, non hanno quella natura COLLOQUIALE tipica del romanzo, non c’è quel senso confidenziale ma crudele, vicino a un “gossiping” della high society che si coglie nelle pagine. Inoltre manca QUELLA leggerezza che caratterizza le commedie, quel respiro fresco e  dalle forti potenzialità antidepressive e terapeutiche. E’ leggero, è frizzante, ma sembra che queste caratteristiche siano tirate come il pongo, siano ritenute necessarie e quindi evidenziate in giallo. Una leggerezza forzata, vorrei dire patinata. Una leggerezza da rotocalco. E i dettagli sono mischiati come si fa con un prodotto che deve avere un bell’involucro ma all’interno nasconde leggerissime crepe, manca a compattezza della storia. Una delusione? Non proprio. La storia si riassume in poche righe, Andrea, neolaureata e originaria di una cittadina di provincia, si è trasferita a New York con la precisa convinzione di lavorare nel mondo del giornalismo, ma, per cominciare, ha trovato lavoro come assistente di Miranda Priestly, celebre editrice della rivista di moda ‘Runaway’. Una posizione invidiabile secondo molti ammiratori di tutto ciò che è trendy e impedibile e che si muove attorno alla leggendaria Miranda, e Andrea avrebbe tutti i motivi per essere felice se non fosse che il suo nuovo capo è una donna dispotica e viziata e non tarda a rendersene conto. Anzi, dal primo giorno, quando si sveste a strati buttandole il cappotto sulla scrivania e quando le da ordini dando per scontante moltissime cose, in una sorta di codice cifrato del “glamour mondiale”. Nel romanzo la storia è raccontata seguendo i passi di Andrea con stile amalgamato, deciso e coinvolgente, senti di essere una sua amica, di condividere le sue confidenze, la conosci, la ammiri, mentre  il coinvolgimento è difficile guardando le immagini che paiono lontane anni luce dalla storia di Lauren Weisberger (qui una recensione interessante http://donne.alice.it/extra/012/diavolo_veste_prada.html).
Il romanzo è considerato un vero classico della chick-lit, al livello del Diario di Bridget Jones e forse persino oltre (i generi, non restano fermi, evolvono, si dilatano, si modificano, percorrono altre strade, e come dicevo, me ne occupo da tempo, anche in uno spazio apposito, Chick-lit Planet, http://chicklitplanet.blogspot.com). Il film è uscito dopo essersi lasciato attendere con sapienza, prima i manifesti, poi i primi spot,  gli annunci sui giornali e in rete, la presentazione a Venezia , e quelle magnifiche locandine ammiccanti. Non sarà l’ultimo è chiaro, leggo moltissimi libri di chick-lit e in tanti, in fondo, è scritto che i diritti sono giù stati venduti per la realizzazione cinematografica. Il mercato è sempre in agguato, a macinare i desideri, a triturare i bisogni per comporre il cocktail giusto che produrrà il massimo profitto. Naturalmente, in contemporanea, il film è stato preceduto in libreria dalla riedizione del romano, e, poco prima, del nuovo libro della Weisberger, “Al diavolo piace dolce”, Piemme, di cui ho scritto tempo fa qui http://chicklitplanet.blogspot.com/2006/10/recensione-lauren-non-basta-il-diavolo.html (Deludente, penserete che sono troppo esigente nei confronti nella chick-lit, che non ne vale la pena, ma non credo). Al cinema invece di farsi coinvolgere si ammira, si resta esterni. Spettatori di qualcosa di bello e curato, certo. Ci mancherebbe altro. Il prodotto è raffinato, si propone come eccitantissimo, da divorare con le pupille. Meglio divorare il popcorn. Resti fuori. Una sfilata di moda lunghissima, dove ciò che è glamourous è anche crudele, in agguato, pretenzioso, capriccioso, affilato come una lama che taglierebbe il cemento se non preferisse tagliare l’autostima e il rispetto degli altri. Alla fine sono uscita malinconica. Questo film che aspettavo tanto, mi ha lasciato ai margini, nella mia poltrona, a bere coca light e a guardare le scarpe e i vestiti con lo stesso sguardo ammirato e sperduto che avevo a Montecarlo, dove mi trovavo quando è uscito, ammirando la vetrina di Chanel. Ecco, una vetrina opalescente, un troppo rapido “prima e dopo” della protagonista che da giovane casual diventa elegantissima fashion victim (e “victim” delle conseguenze della trasformazione anche nella vita privata), trasformazione che le immagini non mostrano come necessaria essendo l’attrice assolutamente carina e irresistibile anche prima, una prova d’attrice di Meryl Streep eccellente (l’hanno sottolineato tutti, ma non sarà un filo esagerato? Certo è bravissima ma non sarà un enfasi eccessiva che svaluta la magnifica carriera di questa attrice che aveva GIA’ mostrato la sua duttilità e la sua capacità di plasmare figure femminili destinate a non lasciarsi dimenticare?) Andate a vederlo, non me la sento di sconsigliarvelo. Poi sarà difficile , soprattutto per le donne, ma anche per ogni tipo di curiosi, resistere a tutto l’impianto che l’industria culturale nelle sue massime sinergie, gli ha costruito attorno… Certo rilassa, certo distacca da piccolezze e preoccupazioni spicciole,  gli occhi brillano insieme alla fotografia, alla carta lucida di Runaway, all’incedere di Miranda, ai suoi gusti difficilissimi, ma ad esempio la dimensione affettiva della protagonista è semplificata e narrata male, e non saprei dire e (forse solo il tempo potrà farlo), come si inquadrerà questo film nella commedia americana (che annovera VERI capolavori), se resterà o se verrà spazzato via (ma ha già guadagnato moltissimo e non importa a nessuno) e soprattutto se la commedia americana ha bisogno di certi romanzi per dare il massimo. Sono domande che uno spettatore non completamente rincitrullito non può fare a meno di farsi. I romanzi di chick-lit sono indicativi di una dimensione della narrativa declinata al femminile e di una certa posizione di questa “femminilità stereotipata ma non troppo” nella società. Non ci credere ma c’è nella chick lit una componente che un giorno verrà vista come parzialmente sovversiva. Perché i generi sessuali perdono confini, perché le donne rivelano disinibizioni e pensieri che non si potrebbero credere, perché i romanzi migliori offrono contesti originali e impensabili. Nel film non si vede nulla di tutto questo, non viene mostrato, e siamo lontani dal sovversivo, tutt’altro. Eppure il legame con il cinema è inevitabile e sono i romanzi stessi a “chiamare” il film prima ancora di essere pubblicati, ma da spettatrice che non disdegna il frivolo e il leggero ho la possibilità di rimanere perplessa ad attendere un risultato più convincente o aspettative e desiderio alimentati con maggiore senso della misura.

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