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Seppellitemi con l’accappatoio – Hotel Messico

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Hotel Messico è il nom-de-plume del giovane scrittore della raccolta di atrocità e storie che prende il nome di “Seppellitemi con l’accappatoio”. Poco sappiamo di lui, se non che ha visto i propri esordi in rete, affacciandosi al mondo della scrittura dalle pagine di un blog. Eccolo invece ora spiccare il salto di qualità e con merito giungere all’edizione cartacea di alcuni suoi racconti.

Sfogliando le pagine dei suoi scritti, quest’autore ci offre la possibilità di permanenza in un luogo non comune, osservatorio privilegiato e lente impietosa attraverso cui scrutare le miserie quotidiane dei protagonisti. Hotel Messico ci apre infatti le stanze della propria mente, scenografia lisergica – quasi alla Lynch – sul cui sfondo si svolgono scene rubate da un voyeur che, della normalità e mediocrità, rileva lo squallore lo sconcerto l’infezione.

Chi ancora sia felicemente persuaso, ad esempio, dell’innocenza assoluta dei fanciulli provi a dare una scorsa alle righe di racconti quali “Scemo”, “Prima Comunione” o ancora “Resina” e si renderà conto di come l’autore demolisca scientemente questo luogo comune, mostrandoci per contrasto un’infanzia cinica, cattiva anche ed a tratti perfino maniacale. Il risultato è un divertimento del tutto scorretto, che porta fuori il ghigno sadico che sonnecchia placidamente in noi.

Gli orrori quotidiani della vita sembrano essere il brodo di coltura per la poetica antieroica di Hotel Messico, che con leggerezza ed ironia, sempre ed orgogliosamente fuori-luogo, attraversa i gironi infernali della psicopatia, sia essa la mania suicida e perfezionista della protagonista di “Abbronzante” o la follia tanato-tecnologica di cui leggiamo in “Cinque ragni”, che a mio parere è il brano più ispirato ed intrigante di tutta l’antologia, grazie ad una lettura personale e psicologica di alcuni spunti del cyberpunk e della letteratura ballardiana.

Ed è proprio il concetto alla base di tanta prosa di J.G. Ballard, ossia l’inner space, lo spazio interiore dell’essere umano – unica frontiera dello sconosciuto e del deviante da esplorare -, a trovare in più di un’occasione nuova voce ed espressione nelle pagine di “Seppellitemi con l’accappatoio”. La lente dello scrittore si volge infatti ad ingrandire microcosmi disperati: quelli, ad esempio, di grave menomazione, come nel racconto “Bottoncino” che illustra il pensiero di un corpo gravemente leso in seguito ad incidente stradale; o ancora troviamo la vicenda di tossicodipendenza e sfascio di “Fino a Fuorigrotta” ed ovunque, dilagante e sovrana, emarginazione, come quella che affligge gli anziani frequentatori e le prostitute del “Garden Bar” o che esacerba gli spiriti dei protagonisti de “Gli operai della metropolitana” o di “Un paio di cose”.
Quello che Hotel Messico ci propone è insomma un itinerario allucinato attraverso gli appartamenti ammuffiti e le strade caotiche e dimenticate di una periferia napoletana uscita direttamente dalle pagine della cronaca ordinaria. I suoi personaggi carichi di frustrazione e speranze disattese, per cui noia e mediocrità sconfinano spesso nell’illegalità e nella patologia, paiono quasi una schiatta di nuovi mutanti, ormai assuefatti al veleno che non è riuscito ad abbatterli, che sintetizzano humour nero e cattiveria. Forse l’autore sta suonando un campanello d’allarme? È forse vero allora che, come lui stesso ci allerta nel retro di copertina, siamo tutti in  pericolo?

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