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Le colline hanno gli occhi

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Interessante è l’ambientazione. Lo scenario post-atomico è di notevole impatto visivo. I crateri lasciati dalle esplosioni sono letteralmente agghiaccianti, un paesaggio lunare nel deserto del New Mexico. I villaggi usati nei test nucleari americani sembrano usciti da qualche allucinazione apocalittica e invece sono realtà. In questi luoghi costruiti come strumenti di misurazione della potenza della bomba atomica e popolati da manichini sorridenti, uomini finti immutabili, si annidano coloro che gli effetti delle radiazioni li hanno sperimentati sulla loro pelle. Corpi deformi e menti incattivite, alla ricerca di una vendetta o di semplice carne da mangiare, esseri scossi da una violenza dettata dalla propria alienazione dal genere umano.

Una famiglia, la classica famiglia americana (con tanto di bandierina patriottica sulla propria macchina) si ritrova in panne nel deserto in questione. Non ci metteranno molto ad accorgersi di non essere soli. Inizieranno i colpi di scena, gli squartamenti e gli sbudellamenti di rito. Si rimarrà ancora una volta in dubbio su chi sia veramente la vittima. I nostri simili o i diversi? Perché i mostri, i deformi, sono indubbiamente coloro che impersonificano la Diversità. Ma anche in questo film, se andiamo in profondità, non c’è coraggio e non c’è vero male. E’ tutta una facciata, una messa in scena di arti amputati e violenza che serve solo a creare spettacolo. Roba da voyeurismo spicciolo, da ribrezzo immediato per chi ha lo stomaco debole, di solita routine per chi è abituato a film di questo tipo.

Perché alla fine rimangono sempre dei sopravvissuti, rimane la persona comune che diventa un eroe nel combattere il nemico, l’altro, il diverso.

E l’unica tra i mostri ad avere ancora una “morale” umana sembra essere la bambina con la felpa rossa, non a caso la meno deforme di tutti, che attraverso il suo sacrificio salva la vita a Doug e alla sua piccola figlia.

Mi ha fatto rabbrividire (ma non di paura) la scena in cui lo stesso Doug trova un ultimo scatto di volontà e coraggio alla vista del proprio anello nuziale su un’anulare ormai semi mozzato. Come a dire che dopotutto sono sempre i valori della vecchia America bianca e cristiana (qui simboleggiati dal matrimonio, dalla famiglia e come abbiamo visto prima dal sacrifico) a portare avanti, al di là di ogni dramma, chi vi abita. Speravo in qualcosa che scavasse più a fondo, che non lasciasse superstiti, in un male che avesse una sua morale (come accadeva nell’ultimo stupendo film di Rob Zombie) e non nei semplici mostri di turno che uccidono senza una ragione precisa, tranne quella di una colpa che nessuna delle loro vittime ha avuto.

Ottimi i titoli di testa, il lavoro del regista è certamente curato, alcuni movimenti di macchina sono fluidi e precisi, il deserto è inquadrato in tutta la sua lucentezza e solitudine, ma il senso del film non va al di là di una banale storiella che ci hanno già raccontato decine di volte.

La salvezza non può essere degli eroi, almeno non più nei nostri giorni.

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