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Sulle fff-orme di Artaud

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Poesia visione suono movimento

 

 

Tra le varie iniziative del bè (Bologna estate) c’è spazio anche per le nuove realtà emergenti: alcuni  giovani selezionati da vari responsabili culturali dei quartieri di Bologna hanno avuto la possibilità di proporre un modo di far teatro che rispecchia un nuovo sentire, una nuova generazione. Ed è questo che avverrà il 19 e il 20 agosto a parco sul reno (BO) , un evento che ci mostrerà varie realtà teatrali tra le quali un giovane gruppo di collaboratori legati da l’associazione culturale “Allegri Spazio Arte” di Firenze che a giugno hanno debuttato con lo spettacolo: FFF-ORME.

Si apre la scena, dunque. Buio. Dagli amplificatori una musica lentamente introduce un’atmosfera di mistero e quella che sarà la voce che non ci abbandonerà per tutto lo spettacolo composto da un’ouverture, tre movimenti e tre intermezzi. Una voce che è portatrice dell’essere uomo-solo nella difficoltà di instaurare una comunicazione serena con la sfera alta, trascendente delle “cose”; un uomo il cui pensiero e la cui immaginazione vengono disturbati da elementi esterni, estranei, un uomo che si trova in difficoltà a comunicare con: «stò Dio che non si vede e non si sente» ma che non per questo rinuncia alla sua sensibilità ieratica. E così ne deriva come scritto nella brochure che: «L’immaginazione, la bellezza lottano per la propria sopravvivenza e per crearsi un proprio spazio, ed è in questa tensione drammatica che si insinua il dubbio del grottesco che destabilizza e rielabora la realtà di tutti i giorni». Queste sono le parole della scrittrice e regista: Stella Saladino che ci propone una sua lettura delle sue poesie sempre  accompagnate da musica e elaborate elettronicamente in collaborazione con Andrea Gianessi (Nihil Project). Sembra in questo senso essere stata interiorizzata la teoria di Artaud per il suo Teatro della crudeltà in Il teatro e il suo doppio :«la sonorizzazione è costante: suoni, rumori e grida sono scelti anzitutto per la loro qualità vibratoria e poi per ciò che rappresentano».[1] Trasposte queste parole in ambito contemporaneo ne deriva la possibilità di ricerca di una sonorizzazione attraverso l’elettronica e  l’operazione dello spettacolo è proprio questa: produzione di un suono effettato, distorto, panoramizzato.

La poesia si compone di una parola che è fatta della materia del suono, una parola che ssscivola e allo stesso tempo riempie la stanza, crea una atmosfera; una parola giocosa, plurisignificante barocca, in armonia con la scena o in contrasto con essa in una lotta costante tra godimento sereno e ieratico della vita e della bellezza e denuncia dell’imposizione di un regime estetico della banalità.

Due attrici-ballerine compongono i movimenti dello spettacolo nelle sue varie atmosfere: gialla, rossa e blu, atmosfere create oltre che dai fari dal video proiettore che ci mostra tre serie – distinte per colore appunto – di quadri di Erica Saladino: volti dai grandi occhi che sembrano guardare cosa avviene sulla scena a volte con curiosità a volte con distacco, come un Dio che guarda dall’alto cosa avviene tra le sue creature. Solo lo spettatore può vedere “l’occhio” bidimensionale proiettato sullo sfondo, le due attrici-ballerine no. Loro rappresentano l’uomo in diverse situazioni che lo rendono volta per volta qualcosa d’altro: da cyborg, a dolce “ragazza dai capelli di lino”, a marionetta clownesca, a sacerdotessa dei riti dell’acqua.

La gestualità come le luci (utilizzate in maniera anti-psicologica) sembrano riprendere anch’essi la poetica artaudiana: «in tutti questi gesti, negli atteggiamenti angolosi e bruscamente interrotti, […] si sprigiona il senso di un nuovo linguaggio fisico basato sui segni e non più sulle parole. […] Lo spettacolo ci offre un meraviglioso insieme di immagini sceniche pure.»[2] Certo è che lo spettacolo per quanto riguarda la gestualità prende in considerazione anche gli ultimi discorsi sulla danza contemporanea e a volte si rifà alla tradizione clownesca. Un gesto quindi “sporcato” nel suo essere danza e esagerato ma estremamente formalizzato nel suo essere teatrale.

È sicuramente un’operazione anti-didattica, per come la pensava Brecht, del cui teatro sono rimasti solo i siparietti ovvero gli intermezzi e i cartelloni che però hanno perso ogni riferimento didattico-pedagogico e delineano semplicemente rapporti tra padrone e slave con un immancabile tocco grottesco.

In complesso lo spettacolo prende chiaramente le distanze dal teatro di prosa e dalle ultime tendenze di teatro e narrazione delineandosi in senso completamente opposto e perciò più come performance o meglio come spettacolo di vera integrazione delle arti. Uno spettacolo, e ancora una volta riprendo Artaud: «per manifestare e imprimere in noi l’idea di un perpetuo conflitto e di uno spasimo in cui la vita viene troncata ad ogni minuto».[3]



[1] Artaud A., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, pp. 159-161

[2] Ivi p. 170

[3] Ivi p. 207

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