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Gambarotta e Piperno: scrivere, narrare e pubblicare

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Sono passati più di sei mesi. Ero andato a vedere la cerimonia di premiazione di “Racconti Corsari” (www.racconticorsari.it) a Caselle Torinese, un concorso di narrativa promosso da alcune associazioni della provincia di Torino e dalla Casa Editrice Il Foglio (http://www.ilfoglioletterario.it). C’erano amici, conoscenti, amministratori locali, una giuria davvero qualificata tra cui spiccavano Stefano Tallia  (giornalista RAI), Gordiano Lupi (scrittore ed editore) e Bruno Gambarotta (giornalista e scrittore).

Ricordo che Gambarotta fece un intervento incentrato sulle differenze tra narrazione e scrittura, e io, da bravo scolaretto, cominciai a prendere appunti su un foglio che è rimasto seppellito per mesi sotto i chili di carta che si sono da tempo impadroniti della mia scrivania.

Quando sentii Gambarotta cominciare dall’uomo della pietra ricordo che mi preoccupai seriamente. “Se la prende così alla larga mi sa che la serata parte col piede sbagliato.” Poi mi persi dietro alle sue parole e alle riflessioni che mostravano concetti a me del tutto consueti sotto una luce diversa.

Nonno Bruno ci parlò della scrittura, che non nasce per ragioni narrative ma contabili, e della narrazione, che pare essere connaturata all’essenza stessa dell’uomo: l’avvento della parola corrisponde alla nascita del racconto. E poi l’arte come racconto che non ha attinenza con la scrittura ma con il segno, la scrittura come accumulo del sapere, la considerazione che “quando in Africa muore un vecchio è come se bruciasse una biblioteca”, l’avvento di Joyce e del racconto come epifania, rivelazione o “grumo che emerge dalla superficie liscia della realtà”.

“Se avessi parlato io di quelle stesse cose ora la platea non starebbe pendendo dalle mie labbra, ma si starebbe slogando le mascelle dagli sbadigli” pensai. Ascoltare Gambarotta era come sentire una di quelle storie che gli anziani raccontavano durante le sere passate davanti al fuoco, e stupirsi di non trovarle assolutamente noiose.

Gambarotta dimostrò che il fulcro della narrazione risiede proprio in chi racconta che cosa e soprattutto in che contesto e in che modo lo fa. Se il mio professore di letteratura alle superiori mi avesse detto che narrare è mettere ordine nella realtà e trovare collocazione e motivo agli elementi della realtà stessa, forse l’avrei guardato con aria distratta per dimenticare il concetto subito dopo. Ma si sa, la scuola non è il massimo in quanto a educazione indotta o procurata.

Eppure, se a pronunciare quelle stesse parole è Gambarotta, l’effetto è completamente diverso, tant’è che le ricordo perfettamente a distanza di mesi. Come mi ricordo anche che “se durante la prova di uno spettacolo teatrale vedete una pistola poggiata sul palcoscenico, statene certi: qualcuno la userà prima dell’ultimo atto. Se invece questo non succede, prima della successiva prova ci sarà qualcun altro che provvederà a toglierla di mezzo.”

Narrare non c’entra nulla con la scrittura. Ma scrivere è un modo come un altro per farlo. E pubblicare ciò che si è scritto è cercare di inserire la scrittura all’interno di una dimensione pubblica che trascende il proprio contesto intimo e individuale. E così arriviamo a un’intervista di Piperno apparsa sul numero 53 della rivista Inchiostro (http://www.rivistainchiostro.it/html/News.asp).

Alla domanda “quale consiglio si sentirebbe di dare a un esordiente che ha difficoltà a farsi conoscere” un disilluso Piperno risponde che “è bene che l’esordiente si renda conto che l’ambiente letterario è piccolo, snob e mafioso”. L’unica speranza? “Conta avere uno sponsor” prosegue Piperno, e “(…) rompere le palle a destra e a manca finché qualcuno che conta non si stanca e legge il manoscritto”.

Il mio professore di marketing dell’Università spiegava in un libro che uno dei metodi per penetrare efficacemente in certi mercati è il ricorso alla “dazione liberale”. Il concetto è più semplice di quel che si possa pensare e corrisponde all’azione di dare qualcosa a un soggetto che, per la posizione che occupa, è in grado di agevolarci nella nostra scalata. Devo essere più esplicito? Non mi sembra il caso. Fattostà che lui ha avuto il coraggio (o lo spirito, o anche solo l’incoscienza) di scriverlo in un libro e di farlo studiare ai suoi allievi, folgorante idea che gli è valsa una sfilza di articoli sui giornali.

Il concetto di base che (credo) volesse esprimere è l’invito a restare con i piedi ben saldi a terra: una cosa è come dovrebbe funzionare il mondo, un’altra come funziona in realtà. I mercati, e quello editoriale non fa eccezione, non sono orologi perfettamente oliati che non sgarrano di un secondo, ma congegni che si muovono sulla base di leggi strane e all’apparenza confuse. Il messaggio che arriva al pubblico è, tuttavia, tanto disarmante quanto duro da digerire: se volete farvi leggere un romanzo (attenzione: leggere e non pubblicare!) dovete trovare qualcuno che vi appoggi.

Mi sembra venuto il momento di fare un bel riassunto: Gambarotta ci ha insegnato che per raccontare non serve scrivere, e scrivere non necessita certo di trovare sbocco in una pubblicazione. Ma quel che è certo è che se volete pubblicare serve uno sponsor, parola di Piperno.

Quando Gambarotta si è congedato dal pubblico dei Racconti Corsari io e Antonio Genovese (http://genovese.splinder.com) ci siamo alzati tutti e due per intercettarlo, ognuno con una copia di un proprio romanzo in mano. L’abbiamo bloccato su due fronti all’uscita e gli abbiamo sporto i libri con aria tra lo speranzoso e l’imbarazzato. Nonno Bruno li ha accettati con il sorriso di chi non fa che ricevere copie di libri di scrittori più o meno esordienti. “Così avrà un soprammobile in più” ricordo di avergli detto mentre si sistemava il cappotto. Non mi è venuto in mente di chiedergli se servisse uno sponsor per aumentare le mie speranze di fargliene leggere almeno qualche pagina. Ma forse è stato meglio così.

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