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Vincolo di mandato: il perché di un divieto

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Il politico deve avere l’umiltà di non considerarsi
detentore del monopolio sociale,
ma non può transigere sulla fierezza di sentirsi portatore
di un mandato prioritario, quello elettivo.
Giulio Andreotti
 
Il termine “mandato” ha diverse accezioni in ambito giuridico: la principale, la più comune e ricorrente è quella del diritto civile, per il quale il mandato è un contratto con cui una parte (mandatario) “si obbliga” a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra parte (mandante)[1].
Per altro verso, a livello pubblico e in materia costituzionale, e precisamente nel contesto dell’elezione dei membri del Parlamento, alcuni usano il concetto di “mandato” per indicare l’incarico affidato a Deputati e Senatori nel rappresentare i cittadini che li hanno votati ed eletti.
Altri ancora stigmatizzano, con forza, la libertà con cui uno dei 945 parlamentari elettivi italiani, frequentemente, cambia gruppo parlamentare, lasciando quello del Partito di elezione, o anche solo non segue le indicazioni di voto del Partito stesso[2].
Tutto sta in questo rapporto di rappresentanza eletto/elettore, che è particolare: è una “rappresentanza generale” (o per interessi generali), per cui “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, come recita una norma breve ma fondamentale della Costituzione, l’art.67[3], che stabilisce il “divieto del vincolo di mandato” per l’eletto, espressione tecnica che indica una realtà molto concreta.
Innanzitutto, viene esclusa la nozione privatistica nel rapporto, consacrato dalle elezioni, per i rappresentanti dei cittadini: non si può instaurare il vincolo civilistico di cui agli artt. 1703 ss. c.c. a carico del mandatario incaricato (ossia del parlamentare), che rimane libero nell’operare le proprie scelte discrezionalmente, rispondendo solo “politicamente”.
Si stabilisce, cioè, che i parlamentari eletti sono liberi di esercitare le loro funzioni senza essere obbligati a votare come indica loro il partito con cui sono stati eletti. Risulta così impossibile per gli elettori stessi, e i partiti politici, vincolare giuridicamente gli eletti, nelle varie assemblee rappresentative, a istruzioni o comandi preventivamente impartiti, o ancora più specificamente che tali istruzioni o comandi (così come qualsiasi accordo intercorso fra elettori e candidati prima dell’elezione), non potranno mai essere assistiti da alcuna garanzia giuridica (es. non potranno mai essere fatti valere di fronte a un Giudice in caso di inadempimento).
Certo nelle Camere si formano i gruppi parlamentari, corrispondenti agli schieramenti partitici, e il parlamentare iscritto al gruppo deve sottostare alle direttive che i vertici gli impartiscono, pena sanzioni disciplinari sino all’espulsione dal gruppo stesso o dal partito. Tuttavia è sempre salva la facoltà di migrazione ad altro gruppo, dove l’eletto può riacquistare la propria indipendenza, pur perdendo le garanzie (relative) che la fedeltà a un partito gli assicura in ordine alla continuazione e sviluppo della propria carriera politica[4]. E’ più rilevante la garanzia della libertà del parlamentare, considerata anche come garanzia di indipendenza delle Camere e della chiusura di esse ad ogni ingerenza esterna, soprattutto ad opera di altri poteri dello Stato.
L’articolo 67 della Costituzione fu concepito per garantire la libertà di espressione ai membri del Parlamento: il legame tra l’eletto e gli elettori viene dunque concepito come “responsabilità politica”, non come un “mandato imperativo”, che era vietato anche dallo Statuto Albertino, che all’articolo 41 disponeva: “I Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori[5].
Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, tra il 1946 e il 1947, la questione del libero mandato venne discussa ampiamente. Uno dei relatori, il giurista Costantino Mortati, disse: «Sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari significa che esso non rappresenta il suo partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme[6]». Questo, successivamente adottato a maggioranza, era il senso di quel principio presente nella Costituzione entrata in vigore nel 1948.
Inoltre, in base ai regolamenti parlamentari di Camera (articolo 83, comma 1) e Senato (articolo 84, comma 1) il singolo parlamentare può parlare in Aula, anche a titolo personale, in disaccordo con le posizioni del gruppo a cui appartiene.
Il divieto di mandato imperativo è presente oggi nella Costituzione francese (articolo 27, comma 1), in quella tedesca (articolo 38, comma 1-Legge Fondamentale), nella Costituzione spagnola (articolo 67, comma 2) e in quasi tutte le democrazie rappresentative[7]. Il “mandato imperativo” è in vigore soltanto in quattro paesi: Portogallo, Bangladesh, India e Panama[8].
In Portogallo, ad esempio, chi lascia il suo gruppo parlamentare, per aderire a diversa formazione politica, cessa di essere membro del parlamento. Negli altri paesi, il parlamentare perde il seggio se si dimette dal gruppo di appartenenza e in più vota in modo diverso dalle indicazioni del partito con cui era stato eletto.
Il problema è, con tutta evidenza, politico e non costituzionale: la nostra democrazia ha il problema della mancata coesione dei gruppi parlamentari, in ragione di un sistema partitico e politico sempre in movimento. E a causa del continuo mutamento dei sistemi elettorali che hanno man mano fatto appannare il principio della territorialità e indebolire il rapporto eletto-elettore.
Nella ricorrenza del 70° anniversario dell’approvazione e promulgazione della Costituzione della Repubblica italiana[9], qualcuno, con troppa semplicità, auspica ancora che i parlamentari, debbano essere “ingabbiati” in un vincolo rigido che li costringa a votare, come automi senza libertà di pensiero, anche su delicati temi etici o su singole persone, secondo le direttive di poche persone di vertice. E questo per impedire loro di cambiare gruppo politico, di passare dall’opposizione alla maggioranza?
Quale, allora, il rimedio a questo diffuso “malcostume”?
Forse una migliore selezione dei candidati, con solide competenze ed esperienze professionali e amministrative, comprovata serietà e onestà intellettuale, e capacità di prescindere dal perseguimento di un interesse di parte o, peggio, personale?
O anche, più concretamente, una legge sui partiti che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione[10], con previsione di sanzioni per i “cambi di casacca”, ad esempio una penalizzazione sul fronte dei finanziamenti pubblici?
Interverrà prima la politica o il cambio culturale degli elettori?
 
Non possiamo immaginare quanto i politici italiani
non siano irremovibili nelle loro decisioni.
 Non bisogna quindi far loro assumere impegni superiori
alle loro debolezze.
Ennio Flaiano

[1] Codice civile – LIBRO QUARTO – Delle obbligazioni – Titolo III – Dei singoli contratti – Capo IX – Del mandato Artt. 1703-1730. 

[2] Cfr. “E cos’è il vincolo di mandato?” di Francesco Marinelli, www.ilpost.it, 17 marzo 2013. 

[3] PARTE II, ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA-TITOLO I-IL PARLAMENTO-Sezione I. Le Camere. 

[4] Cfr. G. Berti “Interpretazione Costituzionale”, CEDAM Padova, 1990, p.527 

[5] Cfr.“Lo Statuto (albertino)” di Alberto Monari, in Kultunderground n.188-MARZO 2011, rubrica Diritto. 

[6] Costantino Mortati (Corigliano Calabro, 27 dicembre 1891 – Roma, 25 ottobre 1985) è stato un giurista, costituzionalista e accademico italiano di origine italo – albanese. È annoverato fra i più autorevoli giuristi italiani del XX secolo. Nel 1946 fu eletto deputato per la Democrazia Cristiana all’Assemblea costituente, e fece parte della “Commissione dei 75” l’organo che scrisse materialmente il testo, di cui fu uno dei protagonisti: a lui si devono molti caratteri attribuiti nella Costituzione agli istituti parlamentari. Fonte Wikipedia. 

[7] Cfr. Marinelli, op.cit. 

[8] “I costituzionalisti: «Il problema è politico, il vincolo di mandato c’è solo in Portogallo, Bangladesh e India»”, di Emilia Patta, Il Sole 24ore, 4 marzo 2013. “A meno che non si vogliano inserire nella casistica anche le vecchie Costituzioni dell’Urss e dei Paesi comunisti dell’Est, dove il vincolo di mandato era la logica conseguenza del partito comunista unico.
 
[9] Il 22 dicembre del 1947 Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente proclamò l’avvenuta approvazione della Costituzione italiana. I voti favorevoli, a scrutinio segreto, furono 453, i contrari 62. Era lunedì. Cinque giorni dopo, e cioè sabato 27 dicembre, appena passato Natale (il terzo dopo la fine della guerra) la Costituzione fu firmata e promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico de Nicola. Esattamente 70 anni fa. 

[10] Cfr.“Apologia del fascismo 2017: La legge “Scelba” di Alberto Monari, in Kultunderground n.267-OTTOBRE 2017, rubrica Diritto

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