KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Venezia 2017

7 min read
74a MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA
 
Estate piuttosto calda. Festival relativamente piovoso. E di nuovo, dopo anni, la scalinata di fronte al Casinò, con aggiunta di fontana, a raso, con i getti verticali da terra e le luci, come nella piazza della mia città. Per la gioia dei ragazzini costantemente a mollo. Ma soprattutto, in questa edizione, grande selezione e grande cinema. Dato oggettivo, non solo un mio parere, opinione comune dei tanti soliti appassionati presenti. Concorso Ufficiale fra i migliori, se non il migliore, degli ultimi anni. Partendo dai premi, a scalare: Leone d’Oro per il miglior film a “THE SHAPE OF WATER” di Guillermo Del Toro, molto apprezzato dalla critica, già dalla prima proiezione super favorito per la vittoria. È stato, dei migliori visti in questa edizione, quello che ho apprezzato meno, essendo il fantasy, per di più romantico, un genere che non mi appassiona, ma che contraddistingue, comunque, questo regista. A seguire, Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria a “FOXTROT” di Samuel Maoz, regista che aveva già vinto il Leone d’Oro qui a Venezia nel 2009 con “Lebanon”. Questo sì, un film che ho apprezzato molto. Spiazzante, drammatico e ironico insieme, ancora, come il suo precedente, ambientato in territorio di guerra, dove anche un cammello, in un contesto surreale, può diventare protagonista. Consigliato. Il Leone d’Argento – Premio per la Migliore Regia è andato a “JUSQU’À LA GARDE” di Xavier Legrand, notevole opera prima vincitrice anche del Leone Del Futuro – Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis. Tematica difficile da rappresentare, la violenza all’interno della famiglia, ma qui realizzato con grande equilibrio e senza scadere nel melodramma. Regista dal grande potenziale. Le due Coppe Volpi sono andate a Charlotte Rampling, per la migliore attrice, nel film “HANNAH” di Andrea Pallaoro, e a Kamel El Basha nel film “THE INSULT” di Ziad Doueiri, per il migliore attore. Quest’ultimo, bel film sempre “di confine” nella delicata situazione politica israeliana-palestinese-libanese. Si scava a fondo nelle contraddizioni di un contesto politico-geografico che affonda i propri conflitti nella propria storia, incapace di voltare pagina in maniera definitiva. L’altro premio per il giovane attore o attrice emergente, Premio Marcello Mastroianni, è andato a Charlie Plummer nel film “LEAN ON PETE” di Andrew Haigh, forse il più scontato fra i premi assegnati. Gli ultimi due premi di Venezia 74’, il Premio per la Migliore Sceneggiatura e il Premio Speciale della Giuria sono andati rispettivamente a Martin McDonagh per il film “THREE BILLBOARDS OUTSIDE EBBING, MISSOURI”, e a “SWEET COUNTRY” di Warwick Thornton, bel western australiano sospeso fra sogno e giustizia. Il film di Martin McDonagh (già regista di “In Bruges”) è stato quello che ho più apprezzato in questa edizione. Il titolo rappresenta l’inizio di questa black comedy, valorizzata da un eccezionale cast di attori (Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, ecc…). Fin dove può spingersi una madre, alla ricerca di un legittimo senso di giustizia, per onorare il ricordo di una figlia perduta? È la domanda chiave di questa pellicola, assolutamente da vedere per capirne la risposta.
Si sono viste tante pellicole in cui il cast di attori ha fatto la differenza, come in “SUBURBICON” di George Clooney, anche in questo caso una black comedy, valorizzata anche dalla sceneggiatura dei fratelli Coen, oppure “FIRST REFORMED” di Paul Schrader, storia di un sacerdote in crisi esistenziale, oppure nei due film italiani “THE LEISURE SEEKER” di Paolo Virzì e il già citato “HANNAH” di Andrea Pallaoro.
Alcune pellicole in concorso meritano un discorso a parte. Intanto la presenza di Frederick Wiseman, con il solito notevole sguardo sul mondo, stavolta rappresentato dalla Biblioteca Pubblica di New York, “EX LIBRIS – THE NEW YORK PUBLIC LIBRARY”. Da citare anche, per affetto verso i lavori di Robert Guédiguian, il suo film “LA VILLA”, un cinema sempre familiare, con i suoi attori, che non rinuncia, pur cogliendo in alcuni tratti una disillusione nel mondo attuale, alle sue tematiche di giustizia e riscatto verso i più deboli. E poi i due film che hanno più spaccato la critica veneziana, della serie o si amano o sia odiano. Quello che io ho amato è stato “MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO” di Abdellatif Kechiche, cinema voyeuristico, sicuramente indirizzato più ad un pubblico maschile, primo capitolo di una probabile trilogia (se basteranno i fondi) ambientata a Sète, nel sud della Francia, nella metà degli anni 90’. Film in parte autobiografico, in cui mi sono letteralmente perso nelle tre ore di dialoghi e di sederi. Invece il film che ho odiato è stato “MOTHER!” di Darren Aronofsky, una pellicola che attraverso la figura di uno scrittore, mette in scena la creazione artistica (e biologica) ed il rapporto che la lega al mondo esterno. Pellicola assolutamente sopra le righe. Credo che, come i suoi protagonisti, il regista abbia perso completamente il controllo e si sia fatto risucchiare nella spirale apocalittica e distruttiva da lui stesso rappresentata.
E poi c’è il capitolo dei film italiani. Venezia non è mai facile per il cinema italiano, l’accoglienza è sempre estremamente critica, si pretende dal cinema italiano quello che non si pretende da altre cinematografie, salvo poi eccessivamente esaltarsi quando si ha un prodotto di buona qualità (che deve comunque identificarsi con un premio…). Negli anni, molti registi italiani già piuttosto considerati, si sono eclissati dal Festival, dopo qualche fredda (in alcuni casi anche offensiva) accoglienza, lasciando spazio a cineasti più giovani, mandati spesso allo sbaraglio. Da qui forse l’idea di proporre cinema italiano senza sembrarlo, nello stile e nei contenuti. In questa edizione, Paolo Virzì con “THE LEISURE SEEKER” ci ha mostrato una storia americana on the road, con protagonisti due anziani coniugi consapevoli di essere al tramonto della propria vita. Una commedia amara, nelle tematiche non particolarmente originale, ma con una coppia di attori (Helen Mirren e Donald Sutherland) superlativi, che valorizzano (salvano?) la pellicola. Anche Andrea Pallaoro si è affidato a Charlotte Rampling per traghettare una pellicola di taglio europeo, estremamente difficile e dalle tematiche scomode. La stessa vincitrice della sezione Orizzonti (miglior film) Susanna Nicchiarelli, con “NICO, 1988”, che illustra il periodo solista della cantante e modella Nico (icona dei The Velvet Underground), attraverso la sua musica e i suoi drammi personali fino all’ultimo suo anno di vita, il 1988, ci propone un lavoro di difficile identificazione nazionale. Processo legittimo ed anche auspicabile, se la controparte deve sempre essere il cinema discutibile di “borgata” o di “rione”, visto anche in questa edizione del Festival (“IL CONTAGIO”, un titolo fra tutti). Andando controcorrente, invece, i Manetti Bros con “AMMORE E MALAVITA”, hanno fatto centro, risultando essere il film italiano in Concorso più apprezzato, ed in generale una delle sorprese. Qui ci troviamo di fronte ad un esplicito ed orgoglioso legame con il melodramma napoletano, mescolando però un’infinità di generi, il musical, l’action movie, il thriller, ed inevitabilmente la commedia. Una pellicola rappresentativa del loro genere, che però personalmente non mi trova entusiasta. Anch’io, come loro, controcorrente.
Tornando alla già citata Sezione Orizzonti (altra notevole selezione), vorrei segnalare due pellicole: una è “BEDOUNE TARIKH, BEDOUNE EMZA (NO DATE, NO SIGNATURE)” del regista iraniano Vahid Jalilvand, vincitore del premio come migliore regia (vincitore anche del premio al migliore attore), che conferma la freschezza e vitalità del cinema iraniano degli ultimi anni, e l’altra pellicola è “LES BIENHEUREUX” della regista algerina Sofia Djama. Questo film (vincitore del premio alla migliore attrice) ambientato nell’Algeri del 2008 dopo la guerra civile, è un’amara riflessione su quel periodo, attualmente ed intenzionalmente censurato dalle autorità, diventando in questo modo anche una riflessione sulla situazione odierna del suo Paese. Chiudendo con i premi della Sezione Orizzonti, da segnalare il premio Speciale della Giuria a “CANIBA” di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor, e il premio per la Migliore Sceneggiatura a Alireza Khatami per il film “LOS VERSOS DEL OLVIDO”. Entrambi film particolari. Il primo è un documentario sul giapponese Issei Sagawa che nel 1981, a Parigi, uccise la compagna di università Renée Hartevelt, per poi farla a pezzi e mangiarne la carne. Il secondo, è un’onirica pellicola sui desaparecidos cileni, firmata da un regista iraniano.
In un’annata con il Concorso Ufficiale e la Sezione Orizzonti sugli scudi, inevitabilmente sono passate un po’ in secondo piano le sezioni ospitate del Festival, Settimana della Critica e Giornate degli Autori. Fra le pellicole più originali da segnalare, “TEAM HURRICANE” di Annika Berg, film punk post-moderno che segue la vita di un gruppo di ragazze adolescenti danesi alle prese con il mediocre mondo esterno, e “LES GARÇONS SAUVAGES” di Bertrand Mandico, storia anch’essa adolescenziale un po’ fantasy, un po’ horror, un po’ sessualmente ambigua, in qualche modo di formazione. L’ultimo film di cui vorrei parlare, è un documentario, “CUBA AND THE CAMERAMAN” del regista americano Jon Alpert. Il giovane giornalista freelance Jon Alpert, nel 72’, rimasto affascinato dall’isola e dalla rivoluzione, decide di recarsi a Cuba, ed inizia a girare con la sua camera, un po’ avventurosamente ed in autonomia, per il paese. Conosce persone che nel corso degli anni tornerà regolarmente a trovare. Riuscirà anche ad intervistare Fidel Castro. Ma il suo sguardo rimarrà fondamentalmente rivolto al paese, agli amici e ai conoscenti frequentati nel corso degli anni. Questo film è la raccolta di tutto questo materiale filmato in quasi cinquant’anni, diventando un documento fondamentale per capire dall’interno l’evoluzione, le difficoltà e le contraddizioni della rivoluzione cubana, senza filtri e censure della propaganda, sia americana sia cubana. Un documento vero, fatto da persone vere, che testimoniano il passaggio generazionale di una rivoluzione alle prese con la storia e con le problematiche moderne.

Commenta