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Il nuovo terrorismo internazionale

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conoscerlo per combatterlo[1]
 
«Come un circolo vizioso, la minaccia terroristica si trasforma in ispirazione per un nuovo terrorismo,
disseminando sulla propria strada quantità sempre maggiori di terrore e masse sempre più vaste di gente terrorizzata»
(Zygmunt Bauman)
 
Abbiamo ancora tutti davanti agli occhi le drammatiche immagini dell’attentato a Barcellona dello scorso 17 agosto: 14 le vittime e più di 100 i feriti.
Ma pochi sanno che nel solo mese di agosto sono stati ben 153 gli episodi violenti riconducibili al terrorismo internazionale nel mondo e 601 le persone che hanno perso la vita. Volendo poi estendere lo sguardo sui primi otto mesi del 2017, gli attentati registrati sono 929 e 5.476 le vittime[2]: da Iraq e Siria, fino a Burkina Faso, Finlandia e Stati Uniti, attraverso Colombia, Filippine e Spagna.
La stampa internazionale ha offerto l’onore delle cronache solo ad alcuni di questi episodi dimenticando gli altri, ma molti dei fatti presentano una fisionomia comune.
È importante ricordare che l’obiettivo di questi criminali è quello di seminare il terrore e il primo degli strumenti che possono essere utilizzati contro la paura è la conoscenza: conoscere un fenomeno permette di relazionarsi con esso, affrontarlo, vincerlo.
Le motivazioni
Molte persone nelle scorse settimane si sono domandate: «Perché Barcellona?» E molti analisti, tra cui io stesso, si sono affrettati a illustrare le motivazioni storiche, politiche e strategiche della scelta di questa città come obiettivo dell’ennesimo attentato.
Madrid ha recentemente riconfermato il suo pieno sostegno agli Stati Uniti nelle operazioni in Siria e in Iraq, consentendo l’uso di basi militari in territorio spagnolo per i bombardamenti. Le stesse forze armate spagnole poi svolgono un importante ruolo nei teatri di Libano e Siria, così come in Marocco e Mali, dove i gruppi legati alle reti terroristiche operano e reclutano manodopera economica da impiegare nel resto del mondo.
Un altro aspetto da ricordare è che la penisola iberica fu tra il 711 e il 1492 sotto il dominio musulmano come Al-Andalus, parte integrante del Califfato storico, e oggi la mistica dei movimenti islamisti continua manifestando la volontà di recuperare queste terre.
Sin qui le motivazioni logiche e razionali.
Ma gli eventi di Turku, in Finlandia, e Ouagadougou, in Burkina Faso, confondono ogni ragionamento e dimostrano l’infondatezza delle precedenti spiegazioni portando a concludere che non esiste una logica né un calendario condiviso, sì purtroppo una matrice comune.
La stragrande maggioranza dei 1.500 milioni di musulmani vive tra l’Africa Occidentale e il Sud-Est Asiatico (in longitudine) e tra il Caucaso e il Corno d’Africa (in latitudine) e fa parte del 90% della popolazione umana che, secondo i dati più recenti, dispone solo del 10%-15% delle risorse del pianeta.
Pertanto, il vero nemico di oggi non è l’Islam, né il fondamentalismo (che, naturalmente, deve essere contrastato): il vero cancro è l’ineguale distribuzione della ricchezza e il continuo atteggiamento predatorio dei paesi già ricchi in relazione a quelli più poveri.
 
I protagonisti
Fatto innegabile è che le caratteristiche degli autori di questi attentati sono cambiate nel corso del tempo: oggi, non sono più esperti paramilitari addestrati nelle scuole del terrore nel deserto dell’Afghanistan, sì giovani, a volte adolescenti, cresciuti nelle stessa città in cui stanno per sacrificarsi.
Loro, ragazzi tra i 15 ei 25 anni, nati in Europa da genitori immigrati o arrivati in tenera età alla ricerca di una vita migliore, che si scontrano con un contesto che non è riuscito a integrarli, troppo spesso li ha emarginati, a volte persino rigettati come corpi estranei.
Come tutti gli adolescenti del mondo, anche questi ragazzi hanno bisogno di un’identità e di una famiglia di appartenenza che possa riconoscerli e valorizzarli.
Elementi questi che le organizzazioni fondamentaliste conoscono bene e utilizzano al meglio, offrendo una comunità globale (la fraternità musulmana) fondata su valori condivisi (l’Islam) e un ruolo eroico da compiere (il martirio jihadista per la diffusione del Califfato).
È interessante notare in questo contesto che, secondo alcuni recenti studi, la pedagogia del terrore mostra oggi i migliori risultati proprio integrando metodologie moderne e tradizionali.
Da un lato la diffusione di messaggi e insegnamenti attraverso Internet, la creazione di communities di interesse nelle reti sociali, le comunicazioni tra i suoi membri attraverso i sistemi di messaggistica istantanea non decodificabili, dall’altra la presenza diffusa e il ruolo di maestri spirituali e leader carismatici che accompagnano la formazione di questi giovani come veri mentori del terrore.
Se condividiamo questo quadro, il terrorismo attuale è qualificabile più come una ideologia totalitaria che come una campagna di proselitismo: e per questo sarebbe più corretto assimilare l’estremismo islamista al nazismo e allo stalinismo del XX secolo e non alla crociate del medioevo, e questo con tutte le conseguenze in merito alle strategie e alle misure da elaborare per combattere e porvi fine.
Tale prospettiva può anche essere utile per provare a definire i passi che la comunità internazionale nel suo complesso e i singoli Stati nazionali dovrebbero adottare.
In primo luogo dal punto di vista dei servizi di intelligence e di sicurezza.
Al Qaeda prima e l’Isis ora hanno dimostrato che la creazione di una rete (la parola araba “al-Qaeda” significa appunto “rete”) è lo strumento più appropriato per gestire in modo efficace ed efficiente una organizzazione che opera a livello globale, con migliaia di membri, obiettivi variabili e risorse economiche instabili.
Le forze di polizia dei paesi occidentali da parte loro non hanno ancora raccolto e messo in pratica questo insegnamento, c’è un enorme difficoltà nel creare un sistema di coordinamento non solo a livello internazionale (l’Interpol è un’organizzazione che spesso sovrasta le autorità nazionali e non riesce ad agire in maniera sinergica e trasversale) ma anche a livello regionale (nella sola Unione europea ci sono circa 60 polizie nazionali e centinaia di sistemi locali non integrati).
La storia degli attentati più recenti ha dimostrato che molti degli autori erano già conosciuti dai servizi di sicurezza e dichiarati come individui pericolosi; fatto che tuttavia non ha impedito loro di attraversare le frontiere, organizzare complesse operazioni transnazionali e portarle a compimento con successo.
A questo proposito, sarebbe meglio condividere le informazioni presenti nelle banche dati nazionali e riconoscere all’Interpol una effettiva giurisdizione universale per certi tipi di reati internazionali come il terrorismo.
 
Il contrasto
Inoltre, come sono cambiati i metodi di gestione e l’azione delle organizzazioni terroristiche nello stesso modo dovrebbero venire adeguati i mezzi di prevenzione e contrasto, attraverso l’integrazione tra tradizione e innovazione, rapporto personale e virtuale, livello locale, regionale e globale. Può non apparire facile, ma l’urgenza della realtà richiede una rapida reazione.
Un altro elemento critico che merita una adeguata riflessione è il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella diffusione e nella promozione dell’ideologia estremista.
Ho già avuto modo di dire che il web è il canale privilegiato attraverso il quale ogni tipo di contenuto viene diffuso oggi e le organizzazioni terroristiche ne sfruttano ogni potenzialità; i media classici e digitali, tuttavia, amplificano questo messaggio e ne potenziano le conseguenze nella società.
I governi, i giornalisti, gli educatori e i sociologi dovrebbero interrogarsi sulle proprie responsabilità nell’amplificare la visibilità di questi contenuti.
Sono questi stessi canali che contribuiscono a produrre e nutrire il mito del terrorismo estremista presentandolo a un pubblico sensibile e suscettibile di influenze negative quando l’opzione migliore sarebbe quella di ridurre la loro esposizione.
Con questo non voglio certo proporre una sorta di limitazione del diritto all’informazione per quanto riguarda gli atti di terrorismo internazionale e nemmeno una censura preventiva, ma mi permetto di suggerire una riflessione circa la responsabilità che tutti noi condividiamo.
La conclusione deve semplicemente portare alla necessità di sviluppare un congiunto di misure per combattere il terrorismo, prevenirne gli episodi di violenza, assicurare alla giustizia i responsabili: operazioni di intelligence e militari, ma anche progetti socio-culturali per combattere l’ideologia della violenza e affermare la sovranità dello stato di diritto.
Come nel 1947 con il Piano Marshall gli Stati Uniti misero a disposizione 14.000 milioni di dollari (più o meno equivalenti a 250.000 milioni di oggi) per sostenere la ricostruzione dei paesi europei e contenere la diffusione del comunismo, oggi la comunità internazionale dovrebbe pensare a un nuovo piano globale di cooperazione per consentire lo sviluppo locale e il contrasto alla violenza delle regioni più povere.
Per far questo, però, c’è bisogno di una forte volontà politica e della partecipazione responsabile di tutte le componenti della società civile.
 
«Il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali»
(Tiziano Terzani)
 

[1] Il presente articolo è la rielaborazione dell’intervento tenuto dall’Autore nell’ambito della Tavola Rotonda internazionale “Le sfide del nuovo terrorismo”, tenutasi a Monza il 16.09.2017.
[2] Fonte: PeaceTech Lab, https://storymaps.esri.com/stories/terrorist-attacks/?year=2017.

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