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Venezia 2016

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73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

 
È stato il Festival più caldo (nel senso del clima), e più inevitabilmente blindato, degli ultimi anni. Da qualche anno continuano le opere di restyling, che ci hanno consegnato in questa edizione una nuova sala,  coprendo definitivamente il buco lasciato dopo la rinuncia ad un nuovo Palazzo del Cinema. Il Concorso Ufficiale è iniziato in maniera scoppiettante con il film “LA LA LAND” di Damien Chazelle, il regista del già pluripremiato “Whiplash”. Musical classico, con numerose incursioni nel jazz, è un film godibile, premiato qui a Venezia solo con la Coppa Volpi a Emma Stone, anche se verosimilmente agli Oscar potrebbe fare la parte del leone. La media dei film è risultata essere sufficiente, anche se la solita nota dolente è rappresentata dai film italiani. Due su tre non meritavano il concorso, “PIUMA” di Roan Johnson e “QUESTI GIORNI” di Giuseppe Piccioni erano troppo leggeri, sia per la parte tecnica sia per i contenuti, sarebbero potuti rientrare al massimo in qualche sezione collaterale e comunque non da protagonisti. Se li paragoniamo ai due film francesi in concorso, “UNE VIE” di Stéphane Brizé e “FRANTZ” di François Ozon, l’abisso appare imbarazzante. Pellicole, al di là dei contenuti, di un rigore tecnico e di una solidità superiore, elemento fondamentale per i top film di una Mostra del Cinema. Brizé incornicia in un formato 4/3 le sfortunate vicende di una nobile famiglia nella Normandia di inizi ‘800, immagini strette e claustrofobiche che ne accompagnano la caduta irreversibile, fino alla soluzione finale, repentina e conclusiva che da il titolo alla pellicola. Ozon si affida invece al bianco e nero per raccontare i lutti e le miserie lasciate dalla fine della Prima Guerra Mondiale. Lo fa attraverso due famiglie, una tedesca ed una francese, accomunate da un morto, il Frantz del titolo. Solo l’altro film italiano “SPIRA MIRABILIS” di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, poteva trovare posto, a livello visivo, nella selezione ufficiale, anche se complessivamente questo documentario sui quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco) è risultato essere prolisso e pesante. Quest’anno i documentari del Concorso Ufficiale non hanno avuto fortuna. Anche “VOYAGE OF TIME: LIFE’S JOURNEY” di Terrence Malick ha lasciato più di qualche dubbio. Ci troviamo di fronte ad un “The Tree of Life” epurato della parte cinematografica, dove il regista americano continua ad ossessionarsi ed ad ossessionarci con le solite domande fondamentali, chi siamo/cosa facciamo/dove andiamo e sull’origine dell’universo. Per me, che non avevo apprezzato neppure il precedente, il giudizio non può che essere negativo. Delusione anche per gli altri due “maestri” in concorso: “NA MLIJECNOM PUTU (ON THE MILKY ROAD)” di Emir Kusturica e “LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ” di Wim Wenders. Kusturica ci propina un polpettone balcanico giocato al ritmo dei suoi film precedenti, diviso fra guerra e storia d’amore, ma stavolta si perde clamorosamente strada facendo, e la fine giunge come una liberazione per lo spettatore. Wenders mette in scena, invece, un testo teatrale del suo amico di sempre Peter Handke, film inutilmente in 3d, con dialoghi metafisici sull’amore e sul sesso, che rendono la pellicola piuttosto noiosa. Non servono neppure le incursioni musicali di un vecchio jukebox, a farci affezionare a questa storia. Fra le note positive del Concorso Ufficiale, sicuramente il film argentino “EL CIUDADANO ILUSTRE” di Mariano Cohn e Gastón Duprat, commedia nera e piuttosto feroce su di uno scrittore premio Nobel, che dopo anni di riconoscimenti  internazionali, decide di ritornare al suo paese natio. Il film avrebbe probabilmente meritato qualcosa in più, oltre alla Coppa Volpi per il miglior attore a Oscar Martínez, il protagonista della storia. Premio giusto, Leone d’Argento ex-aequo per la migliore regia anche all’altro bel film “PARADISE” di Andrei Konchalovsky, storia ambientata all’epoca della shoah. Apprezzato anche “NOCTURNAL ANIMALS” di Tom Ford, vincitore del Leone d’Argento – Gran Premio Della Giuria. Il regista, nonché stilista, texano conferma l’eleganza espressa anche nel suo precedente “A Single Man”, in una storia cruda giocata fra romanzo e realtà. Discorso a parte meritano i due film che più hanno fatto parlare sui premi: “ANG BABAENG HUMAYO (THE WOMAN WHO LEFT)” di Lav Diaz il vincitore del Leone d’Oro e “JACKIE” di Pablo Larraín, il vero sconfitto di questa edizione, accreditato dei favori della stampa e del pubblico, ma vincitore solo del premio minore per la Migliore Sceneggiatura. Lav Diaz è un rigoroso regista filippino, sempre presente ai Festival Internazionali, che con le sue immagini in bianco e nero, i suoi fotogrammi fissi e le sue durate sconfinate, ci racconta la storia del suo paese. Questo film di quattro ore, era eccezionalmente il suo film più breve, forse anche per questo è riuscito a trovare posto nel concorso ufficiale. Ammetto di aver ceduto e di essere uscito dopo un’ora e mezza di film. Non posso quindi giudicare l’opera in sé, non posso neppure giudicare il suo stile e la scelta del suo cinema. Sicuramente è un cinema che mette una certa distanza fra l’opera da Mostra e l’opera d’intrattenimento. E’ un cinema che avrà sempre più fans all’interno dei Festival, ma che sarà inaccessibile al grande pubblico, anche per ragioni puramente distributive. Per Pablo Larraín il discorso è diverso. Anche lui è cresciuto all’interno del Festival Internazionali, direi in maniera esponenziale, diventato veramente un punto fermo della cinematografia mondiale, sfoderando via via opere sempre più belle e convincenti. E il suo cinema viene distribuito e si apprezza anche nelle normali sale. Però non ha un buon rapporto con il Festival di Venezia… Nello specifico “Jackie”, bel film sulla vedova di Jhon Fitgeral Kennedy, anche se personalmente non lo ritengo la sua opera migliore, ed anche se l’interpretazione di una sontuosa Portland non mi convince fino in fondo, resta una buona pellicola che poteva sicuramente avere un maggior riconoscimento, in molti ne hanno parlato e l’hanno molto apprezzato. Per finire con il Concorso Ufficiale citerei i due film più discussi, come contenuti, di questa selezione, entrambi comunque premiati: Leone d’Argento ex-aequo per la migliore regia a “LA REGIÓN SALVAJE” del regista di origine messicana (anche se nato a Barcellona) Amat Escalante e Premio Speciale Della Giuria a “THE BAD BATCH” della regista americana di origine iraniane Ana Lily Amirpour. Personalmente non ho apprezzato nessuno dei due film. In questa edizione, a differenza degli anni scorsi, mi è capitato di visionare diversi film Fuori Concorso, ed alcune pellicole le ho trovate particolarmente interessanti. Nonostante non sia un fans di Mel Gibson, devo ammettere che  il suo “HACKSAW RIDGE” è un bel film. È la storia di Desmond Doss il primo obiettore di coscienza insignito della Medaglia d’Onore del Congresso Americano, che salvò nella battaglia di Okinawa, una delle più cruenti della seconda guerra mondiale, settantacinque uomini senza sparare un solo colpo. Il film è diviso sostanzialmente in due parti, la prima dove Desmond si arruola e dove vengono messe in evidenza le problematiche della sua scelta di obiezione, e la seconda parte dove siamo catapultati nel bel mezzo della battaglia, estremamente violenta, di cui il buon Mel Gibson non ci risparmia nulla, sbaragliando, in quanto a sangue, l’inizio del “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg. Interessante “THE BLEEDER” di Philippe Falardeau, che ci racconta la storia del pugile Chuck Wepner, che ispirò la serie di Rocky Balboa. Anche quest’anno presente Ulrich Seidl, ormai un habitué del Festival, con il suo ultimo documentario “SAFARI”, alle prese con la solita feroce rappresentazione umana, però un po’ inferiore rispetto al suo straordinario “Im Keller” di due edizioni fa. Fra i documentari Fuori Concorso, interessante anche “AMERICAN ANARCHIST” di Charlie Siskel, un film intervista a William Powell, che nel 1970, nel pieno degli scontri politici degli anni 60’, all’età di diciannove anni, scrisse uno dei libri più controversi mai pubblicati: The Anarchist Cookbook, in parte libro manifesto e in parte guida pratica per la fabbricazione di esplosivi. Il libro ha percorso il tempo, diventato il protagonista occulto di tutte le maggiori stragi americane degli ultimi cinquant’anni. Una delle più belle pellicole che ho visionato quest’anno è stato il documentario “ONE MORE TIME WITH FEELING” di Andrew Dominik, che segue ed intervista il musicista Nick Cave durante la realizzazione dell’ultimo album dei Bad Seeds, Skeleton Tree, uscito dopo la drammatica morte di suo figlio. È una testimonianza commovente di questo periodo buio, girato naturalmente in bianco e nero (Nick Cave è l’artista del bianco e nero) ed eccezionalmente (anche contro i suoi desideri) in 3d, forse l’unico film in 3d, che io abbia mai visto, con un senso estetico funzionale a ciò che si racconta. Fra i documentari che non ho visto, e che cercherò di recuperare, devo segnalare “AUSTERLITZ” di Sergei Loznitsa, ispirato all’omonimo romanzo di W.G. Sebald dedicato all’Olocausto, film che ha fatto discutere ed ha sollevato numerosi interrogativi, perché il regista riprende ed osserva immobile, il turismo di massa in un ex campo di concentramento nazista, con tutte le sue dinamiche e contraddizioni. Altro evento di quest’anno che non ho visto, ma comunque da segnalare, sono stati i primi due episodi di “THE YOUNG POPE” di  Paolo Sorrentino, serie Sky che si preannuncia essere già di culto nella prossima stagione. Nella sezione “Orizzonti” ho apprezzato “KING OF THE BELGIANS” di Peter Brosens e Jessica Woodworth, una surreale commedia on the road che vede protagonista il Re del Belgio. Durante una visita ufficiale in Turchia, la delegazione reale viene sorpresa da un evento inaspettato, l’annuncio della dichiarazione di indipendenza della Vallonia dalle Fiandre. Bloccato però da una tempesta magnetica provocata dall’eruzione di un vulcano, il Re ed il suo seguito, deciso ad utilizzare mezzi alternativi per cercare di rientrare velocemente in patria e risolvere la crisi, fugge dalle autorità turche, responsabili della sua sicurezza, che gli impediscono di partire. Il rientro in patria diverrà una spassosa odissea attraverso i Balcani, ma nello stesso tempo una presa di coscienza dell’Europa, delle sue differenze, e delle sue difficoltà attuali. Altro interessante documentario della sezione “Orizzonti” è stato “DAWSON CITY: FROZEN TIME” di Bill Morrison. Negli anni 70’ furono ritrovate, sepolte in una piscina ghiacciata, a Dawson City nello Yukon, una grande quantità di pellicole cinematografiche dai contenuti più vari: dai film hollywoodiani dell’epoca, ai documentari sulla vita dei cercatori d’oro e sull’espansione della città. Questo materiale è stato raccolto in un museo e Bill Morris, attraverso anche ad interviste e foto d’epoca, ce lo restituisce in questo documentario, ricostruendo un pezzo di vita americana di inizio secolo. Per ultime volevo segnalare qualcosa dalle sezioni autonome di questo Festival, Settimana della Critica e Giornate degli Autori, anche se le ho frequentate meno rispetto ad altre edizioni. Il mio film preferito della Settimana della Critica è stato “JOURS DE FRANCE” di Jérôme Reybaud, un road movie attraverso la Francia dove una coppia di uomini legati sentimentalmente, s’insegue attraverso un’app per smartphone di incontri omosessuali. Per le Giornate degli Autori segnalo tre pellicole. “THE WAR SHOW” di Andreas Dalsgaard e Obaidah Zytoon è un documentario sull’attuale situazione della Siria, dagli inizi, con le proteste di piazza contro il presidente Bashar al-Assad, alla violenta risposta del regime che, attraverso una brutale spirale sanguinosa, ha portato il paese al tracollo attuale. La pellicola non lascia nessuna speranza per un futuro migliore, non trovando nessun spiraglio in una situazione tanto complessa quanto folle, si può piangere solamente per gli amici caduti. Il film ha vinto il premio di questa sezione, il Venice Days Award. “HJARTASTEINN” di Guðmundur Arnar Guðmundsson, è un film islandese, storia di alcuni adolescenti in un piccolo villaggio di pescatori. È stato uno dei film in corsa fino all’ultimo per la vittoria finale. Per ultimo “LA RAGAZZA DEL MONDO” di Marco Danieli, unico film italiano che ho apprezzato nella Mostra di quest’anno, non avendone per altro visionati molti. È la storia di una ragazza, Testimone di Geova, che si trova ad affrontare le drammatiche conseguenze di scelte contrarie al proprio gruppo. Il film ne illustra bene i condizionamenti  e l’autoritarismo, che schiacciano l’individualità personale in nome di un bene collettivo alquanto discutibile. Fra gli eventi speciali delle Giornate degli Autori è stato presentato “ROCCO” dei francesi Thierry Demaiziere e Alban Teurlai, un documentario sul famoso pornoattore Rocco Siffredi, una vera star del genere, talmente famoso da essere popolare anche al di fuori del suo ambiente. Trovandosi di fronte ad un personaggio “speciale”, l’operazione di una docu-biografia era giustificabile. Invece la pellicola è risultata essere molto deludente, a tratti troppo celebrativa ed a tratti un po’ finta, dove non si riesce veramente ad estrapolare qualcosa di interessante e sincero. Il tutto, convenzionalmente, come uno se lo aspetta, come le pellicole hard di cui è il protagonista.

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