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L’Accordo di Parigi contro il riscaldamento globale

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novità e debolezze
 
«… che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi,
 ai bambini che stanno crescendo? Dobbiamo fare di tutto per fermare i cambiamenti climatici,
 o almeno attenuarne gli effetti, e lottare per far fiorire la dignità umana»
(Papa Francesco)
 
Tra novembre e dicembre dell’anno scorso si è tenuta a Parigi la 21ma Conferenza delle parti (in inglese, Conference of Parts, Cop 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC)[1], meglio conosciuta come Accordo di Rio, e la 11ma sessione della riunione delle parti del Protocollo di Kyoto.  
Le delegazioni presenti avevano l’obiettivo di giungere dopo più di 20 anni dalla Conferenza di Rio de Janeiro a fissare una strategia condivisa per combattere il fenomeno del riscaldamento globale con la definizione di precisi impegni.
Alla vigilia del vertice, le differenti posizioni annunciate lasciavano presagire un cammino assai arduo ma, il 12 dicembre, la presentazione del testo finale dell’Accordo di Parigi[2] ha permesso a molti di applaudire soddisfatti per il lavoro compiuto.
Non nascondiamo ovviamente le numerose voci critiche che si sono alzate da organizzazioni ambientaliste e esperti del settore che avrebbero desiderato un maggior protagonismo della società civile e l’adozione di provvedimenti più coraggiosi e impegnativi.
Esaminiamo dunque insieme questo importante documento e cerchiamo di proporre alcune valutazioni pertinenti circa i suoi contenuti e la sua portata per il futuro del nostro pianeta.  
 
L’Accordo di Parigi
Ancor prima di quanto concretamente dispone, l’Accordo di Parigi rappresenta in sé un pregevole risultato: è il primo documento di diritto internazionale universale approvato per consenso dall’intera comunità internazionale (senza dunque passare attraverso il voto) ove si parla dei rischi del riscaldamento globale e si adottano impegni condivisi per ovviare a ciò.
E nello specifico, l’art. 2 dispone l’obiettivo di contenere l’innalzamento della temperatura media del pianeta «nettamente sotto i 2°C» continuando l’azione condotta per limitare l’aumento a 1,5°C e nel far questo le Parti riconoscono esplicitamente che «i cambiamenti climatici sono una preoccupazione per l’intera umanità» e che, quando agiscono in risposta a questi cambiamenti, dovrebbero «rispettare, promuovere e tenere in considerazione le proprie obbligazioni in materia di diritti umani, diritto alla salute, diritti dei popoli originari, delle comunità locali, dei migranti, dei bambini, dei disabili e delle persone in situazione di vulnerabilità e di diritto allo sviluppo, così come la parità di genere, la autonomia delle donne e l’equità tra le generazioni».
Il riferimento all’equità intergenerazionale è uno degli elementi di grande interesse dell’Accordo: «principio secondo cui il pianeta debba essere consegnato alle generazioni future in condizioni non peggiori rispetto a quelle in cui l’abbiamo ereditato».
 
Le novità
Ma veniamo all’Accordo e cerchiamo di evidenziare gli aspetti di novità che presenta e che motivano gli entusiasti.
Primo fra tutti, e poco pubblicizzato, è il metodo di lavoro adottato dalla Conferenza: l’indaba, un sistema tradizionale dei popoli zulu e xhosa del Sud Africa, per il quale le decisioni vitali per la comunità si adottano con stile partecipativo e inclusivo. E ciò ha permesso di giungere all’approvazione del testo finale per consenso, senza una votazione formale. Il percorso è stato estenuante ma l’esperienza lascia ben sperare per l’applicazione del modello ad altri negoziati internazionali paralizzati da contrastanti interessi che paiono inconciliabili.
Dal punto di vista dei contenuti, da sottolineare l’impegno assunto dalle parti di contenere il riscaldamento del pianeta sotto i 2°C e, magari, entro 1,5°C: obiettivo non facile da raggiungere visti gli attuali livelli di produzione di inquinanti che, secondo gli esperti, causerebbero un aumento delle temperature medie di ben 4-5°C, con le apocalittiche conseguenze che ben conosciamo.
Positivo è l’atteggiamento della comunità internazionale che, nell’esaminare la situazione, oltre a richiamare i reciproci obblighi di ciascun Paese, dichiara che nella sua azione sarà guidata dal «principio di equità e delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, avuto riguardo ai differenti contesti nazionali»: i Paesi che più inquinano hanno dunque maggiori responsabilità, così come i Paesi più ricchi.
Per finanziare tale lotta senza quartiere, tutti gli Stati hanno assunto l’obbligazione di apportare annualmente fondi per 100 miliardi di dollari statunitensi fino al 2020, cifra importante ma per il momento ben lungi dall’essere raggiunta (nel 2015 le risorse stanziate hanno raggiunto solo i 57 miliardi). Ora però c’è l’Accordo!
E con l’Accordo gli Stati parti si impegnano anche a elaborare e condividere misure finalizzate a controllare i cambiamenti climatici, uniti in un fronte comune che dovrà condurre al superamento dell’uso dei combustibili di origine fossile: ogni Paese dovrà presentare i propri obiettivi quinquennali e le specifiche strategie da porre in essere per realizzarli e, a cadenza periodica, verificare il proprio e altrui operato in seno alla COP.
Operato che terrà conto delle specifiche esigenze dei Paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione all’Africa, e alla promozione delle energie rinnovabili con la creazione di partenariati regionali ed internazionali tra soggetti statuali e società civile, settore privato e istituzioni finanziarie, città e autorità locali, comunità e popolazioni autoctone. Un virtuoso esempio di partenariato pubblico privato a tutto tondo.
Non secondarie sono state ritenute anche le attività di educazione, formazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale sulle tematiche relative al cambio climatico nonché l’accesso alle informazioni pertinenti: per questo motivo si è previsto un puntuale impegno alla trasparenza.
Inoltre, si provvederà a creare una banca dati globale per i materiali provenienti dagli Stati e a stilare un bilancio mondiale sui progressi raggiunti a cadenza quinquennale a partire dal 2023.
Ulteriore contenuto innovatore in un testo giuridico internazionale è l’affermare l’esistenza di «legami intrinseci tra l’azione e la risposta rispetto ai cambiamenti climatici ed ai loro effetti e un accesso equo allo sviluppo duraturo e all’eliminazione della povertà» nonché il riconoscere la priorità fondamentale di «proteggere la sicurezza alimentare […] dagli effetti nefasti dei cambiamenti climatici».
In termini di funzione pedagogica dell’Accordo, è da sottolineare il richiamo all’adozione di stili di vita, di produzione e di consumo che siano durevoli e sostenibili.
Aspetto ugualmente notevole e poco commentato dai tecnici è l’accenno alle culture originarie che si rifanno alla “Madre Terra” o “Pacha Mama” ed alla nozione a loro intrinseca di «giustizia climatica»: elementi perduti dalle moderne culture occidentali ma ben presenti nelle culture originarie da cui è possibile attingere per completare le più avanzate conoscenze scientifiche disponibili.
 
Le debolezze  
Se molti sono i motivi di soddisfazione ed euforia per l’adozione dell’Accordo di Parigi, altrettanti purtroppo sono gli elementi critici o le debolezze.
Innanzitutto, in molti hanno fatto notare che la forma del documento, l’Accordo, è stata volutamente scelta per farvi discendere una efficacia obbligatoria più attenuata rispetto alle tradizionali forme del Trattato, della Convenzione o del Patto internazionale.
Se a questo aggiungiamo la specifica forma redazionale di ogni articolo (le Parti possono, dovrebbero, hanno la facoltà), giungiamo a condividere alcuni dubbi sollevati sulla efficacia vincolante delle disposizioni dell’Accordo.
Tema questo su cui i giusinternazionalisti si confronteranno, almeno dopo la sua entrata in vigore che, come previsto, avverrà solo dopo che almeno 55 Paesi parti alla Convenzione di Rio, che rappresentino almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra, l’avranno ratificata.
Altro aspetto delicato è quello degli obiettivi nazionali (gli INDC, Intentional Nationally Determined Contributions): purtroppo, non si è raggiunta la uniformità e omogeneità necessarie per condurre valutazioni di impatto precise. Gli Stati assumono l’obbligo di presentare i propri rapporti ma obiettivi, strumenti e misure restano nella loro libera disponibilità.
Allo stesso modo, non esiste un obbligo di contribuire al fondo dei 100 miliardi di dollari per la lotta al cambio climatico. Ogni Paese è libero di conferire al fondo ciò che ritiene.
A fronte di ciò, l’Accordo non prevede alcun sistema sanzionatorio in caso di inadempienza perché, come cita testualmente l’articolato, si prevede sì «un meccanismo per facilitare la messa in opera e promuovere il rispetto delle disposizioni del presente Accordo», ma detto meccanismo sarà «costituito da un comitato di esperti e basato sulla facilitazione, […], trasparente, non accusatorio e non punitivo».
Altra critica pesante riguarda la suddivisione dei Paesi parti secondo il loro grado di sviluppo: se da una parte riconosce una sorta di dovere alla cooperazione internazionale tra parti, dall’altra si fa notare che Paesi come Cina, India e Brasile continuano ad essere considerati “in via di sviluppo”, con tutto ciò che ne consegue. 
Ma il punto più dolente sembra essere la non congruità del calendario di lavoro proposto con gli obiettivi dichiarati: una volta in vigore, i meccanismi dall’Accordo entreranno a regime nel 2020, nel 2023 si prevede una prima verifica e, a seguire, ogni 5 anni. Troppo tardi, per molti, con un pianeta Terra in condizioni già critiche e una prospettiva di riscaldamento medio globale di 4°C entro il 2050.
Una nota di rammarico accomuna poi gli ambientalisti di tutto il mondo per il fatto che in tutto il documento non si sia avuto il coraggio di utilizzare il termine “decarbonizzazione” per l’auspicato obiettivo di completa sostituzione dei combustibili fossili, limitandosi a parlare di «picco di emissioni» per indicare la quantità massima di inquinanti che può essere tollerata dall’ambiente.
Scelta questa timida o più conveniente.
 
Un giudizio, anzi due
Per concludere, molti riconoscono l’Accordo di Parigi come «un piano di lavoro più che un piano d’azione»; di sicuro, però, per la prima volta nella storia l’intera comunità internazionale ha riconosciuto il momento di crisi ambientale che sta vivendo il pianeta e, dunque, l’imminente rischio alla sopravvivenza.
E a fronte di ciò, si è assunta una precisa responsabilità nel tentativo di arginare il pericoloso cambio climatico che stiamo vivendo.
Ovviamente, la più grande fragilità dell’Accordo è insita nella sua amplissima partecipazione: 195 Paesi, mai successo nella storia delle relazioni internazionali!
Inevitabili i compromessi, comprensibili le concessioni. Da attendersi, almeno 195 interpretazioni distinte.
L’augurio sincero da parte di un cultore del diritto internazionale e di un amante del pianeta su cui viviamo è che il cammino intrapreso a Parigi possa continuare e che l’Accordo di dicembre sia solo il primo strumento di un arsenale originale ed efficace ancora tutto da creare.
 
 
 

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