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Fotosmosi – Simonetta Ruggeri

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Fotosmosi è un'opera prima, sebbene matura, che sembra attingere a tutti i mondi dell'arte e della conoscenza per tradurli in una poesia ruvidamente magica, di fratture e "resti"  rielaborati in profondità partendo da invisibili interstizi della tradizione italiana, quella poetico-letteraria ma anche quella pop e più quotidiana. Si tratta di un frammentario muschio di pensiero che si fa strada senza timidezza ma con perplessità e distacco dai sentimenti: "Cresce muschio su di me/e con questo vestito mi acconcio”. Lo stile è a tratti prosastico, con una strutturazione tipica dello stream of consciousness, dove ogni intima riflessione rimanda sia alla libertà del pensiero che al necessario vaglio della coscienza. Altrove il ritmo è  serrato, giambico, saffico o cantilenante fino all'ironia.
Parla l'intimità femminile, una voce danzante e ripiegata, delusa dall’amore e vitale ma anche gli oggetti che in uno spazio, in apparenza claustrofobico, delimitano il caos interiore mentre le sfumature della luce ne connotano i vari colori nello spazio: “Spiove l’armadio/tarlato di bozzoli scuri,/claudica lo sgabello/scazonto orpello./La panca si è girata,/indignata,/ricoperta di polvere e di luce.”
Il sogno e la visione sono iscritti in fotogrammi e in immagini pittoriche ma l'intera silloge, oltre che a queste percezioni, rimanda alla musica, ai cicli naturali e storici che vanno dall’apogeo alla decadenza, includendo l'ancestrale dialettica tra bianchi e neri o quella di un'alternanza abitativa nomade o stanziale.
Fotosmosi è anche reazione cromatica oltre che simbolicamente umorale. Quasi proustianamente si indaga il regno di tutti gli esseri viventi per comprendere quel nucleo radiale con cui ogni forma conquista il suo spazio nell’ambiente circostante. L’essere umano, di per sé fragile e mai risolto, non può ridursi soltanto alla visione narcisistica di se stesso né permanere nell’immobilismo dell’abbandono; ha bisogno invece di relazioni autentiche per evolvere. Diversamente si assiste ad un inevitabile ripiegamento, proprio come quello del "ficus bengalensis/ricongiunto tra rami e radici/nella terra che tutto travaglia."
In controluce potrebbe affacciarsi altresì uno stigma generazionale nei confronti di un abuso che si fa della psicoanalisi, "pseudo-scienza", insufficiente ormai, da sola, a spiegare tutto quello che accade nella nostra mente che è, prima di tutto, un ingranaggio di impulsi chimici e stimoli meccanici:”Come questo rumore,/parlo,/apro e chiudo le gambe/lascio e riprendo Dio.” Nondimeno la retorica dell’amore vacilla se ”L’amore non fortifica/e non libera./Rende vitali/solitudini atroci,/vanitosi specchi di spocchiose infanzie.”
Tra Anima e Meccanica c'è un demone ambiguo, Eros, che conduce solo verso un desiderio in fuga. La reciprocità, ossia quell’ideale permeabilità tra fonti di luce diverse, che potrebbe essere il reale significato del titolo dell’opera, sembra impossibile se ciò che vogliamo si riduce ad un fantasma che, una volta materializzato, perde d’interesse. La conoscenza tuttavia permette di uscire da un nichilismo ostile per tentare di armonizzarsi con l’altro. Scendere a patti con una sorta di "monstre" raciniano, di demone interiore, è forse il primo passo che la poetessa romana vorrebbe ricercare in un doloroso desiderio di reale affrancamento. La suddivisione nelle due sezioni di Camera scura e Camera chiara rotea intorno ad uno sguardo opaco e polveroso che tenta di interpretare i significati  ma c’è anche, immagino, la blakiana ricerca di equilibrio tra innocenza ed esperienza. Forse la nostra autrice parte da Blake e attraversa in qualche modo la poesia di Eliot, almeno per ciò che pertiene le immagini di deriva e  decadenza della società ma non sembra estranea a riferimenti perfino shakespeariani.
La sensazione di fondo è che, dall’individuale al generale, ci troviamo in una sorta di Kali Yuga, dunque epoca oscura, ed è necessario accendere luci alternative per resistere ad una evidente deriva esistenziale: "..in assenza di luce/ho già acceso un drammatico buio/nei ricordi commossi/sconnessi/mi accontento di fiammelle in disparte.."
Ad una romantica unione filantropica contro il vero ineludibile pericolo, la natura, fa da contraltare l’impossibilità di realizzazione di un sano scambio di relazioni. Si tratta di un meccanismo sociale che incanta e stupisce ma che è anche incantato, ossia inceppato: “E’ il disagio/evidente/di questa società/rattrappita civiltà/ a muovere i miei nervi affaticati/o quel moto/inceppato/sotto la pelle/che mi incanta la mente?”
Si comunica con molti codici, consueti e nuovi. Nel disagio per un’impostazione macchinosa del vivere quotidiano e civile, si rivendica una condivisione egalitaria attraverso una sorta di creolizzazione delle anime e degli intenti: “Ti appresti all’ordine/donna meticcia/di fatica e rancore./Riponi armonie nel ventre basso,/docili speranze/sorpassate dal tempo./Nocciola l’abito./L’odore di matrice opaca/punge e prevale,/insieme alla cannella,/su rassegnata ambizione.”
 

 

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