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Intervista con Paolo Andreoni

10 min read
PAOLO ANDREONI – “UN NOME CHE SIA VENTO
In CD su tutti gli store digitali dal Controrecords / New Model Label
Dist. Audioglobe – dal 3 aprile 2012
 
Un nome che sia vento” è il secondo disco di Paolo Andreoni.
L’album è una riflessione su solitudine e libertà come i due lati della stessa medaglia. Testi e atmosfere tra rabbia e malinconia, con canzoni che allargano l’orizzonte verso panorami meno reali, luoghi di fuga e di sogni. Un disco d’ascolto: a metà tra la canzone d’autore e il post-rock, con qualche apertura all’elettronica e con chiari rimandi al chitarrismo africano di cui si inseguono le armonie nei quattro strumentali presenti nel disco. Un album che ha come orizzonte geografico il deserto: quello reale, quello che appare in controluce nelle metropoli e i nostri personali deserti quotidiani.
Il nuovo disco segue di due anni l’uscita del precedente “La Caduta delle città del Nord” (2009), accolto favorevolmente dalla critica nazionale e ospite delle serate de “Il Tenco ascolta” nel 2010.
Nel 2010, sempre con la collaborazione della Bussuku Bang!, esce il singolo “Il destino di una nazione”: la title-track è una descrizione caricaturale e grottesca del panorama politico italiano: “Tinariwen”, l’altro brano incluso nella raccolta, è un travolgente strumentale su armonie africane, nel quale si fondono la melodia del blues del Sahel e l’afrobeat di Fela Kuti.
 
Un nome che sia vento” è stato prodotto da Paolo Andreoni e Davide Terrile, con la collaborazione di alcuni elementi della Bussuku Bang!: Mauro Mazzola (chitarre) e Roberto Ambrosioni (tastiere). Invitato speciale: Davide Cornoldi (batteria).
 
Paolo Andreoni nasce nel luglio del 1979 in Marocco. Vive, fino all’adolescenza, immerso nella travolgente energia del continente nero. La giovinezza trascorre tra esperienze musicali più o meno importanti. Tutte sconosciute. Nel 2001 si diploma in regia teatrale alla scuola civica “Paolo Grassi” di Milano. Nel 2007 partecipa, tra i pochi stranieri, all’allestimento di “Bintou Wère, Une opera du Sahel”, la prima opera lirica africana, che è argomento della sua tesi in Lettere, nel 2010. Nel 2008 nasce il progetto Paolo Andeoni & Bussuku Bang! L’intento è quello di dare una veste più ricca ed articolata alle canzoni di Paolo Andreoni. Nel 2009 esce l’album “ La Caduta delle Città del Nord”. Il disco riscuote un buon successo di critica (IL MUCCHIO, BIELLE, ROCKIT, L’ISOLA CHE NON C’ERA) ma non di pubblico. Un anno dopo, nell’autunno 2010, la band viene selezionata dal CLUB TENCO per partecipare alle serate de “IL TENCO ASCOLTA”. La nuova incisione del gruppo, “Il destino di una nazione” (dicembre 2010), lo porta direttamente a Radio Wave International dove viene intervistato da Fabio Mugelli all'interno di La musica che gira intorno. "Un nome che sia vento" viene pubblicato nel novembre 2011.
 
 
 
Intervista
 
Davide
Ciao Paolo. Un album che ha come orizzonte geografico (e metaforico) il deserto… Puoi chiarire meglio questo concetto?
 
Paolo
L’album, a suo modo, è un concept su libertà e solitudine. Potremmo dire: liberi di sentirsi soli. Il deserto appare un po’ come il paesaggio ideale, e certo anche il più ovvio, per potersi abbandonare a questa ricerca “in solitaria”. Il deserto è anche aridità, che è quello che ci rimane quando ci abbandonano certi sentimenti. In questo disco le canzoni più “sentimentali” fanno sempre riferimento a un vuoto, a una sensazione, che è anche un’esigenza, di oblio.
 
Davide
La rébellion e Sol maior para comandante sono due strumentali davvero notevoli, perché fanno subito e semplicemente capire come il blues provenga dalla musica africana.
Oltre a esservi nato, per quanto tempo hai vissuto in Marocco? Qual è la musica locale e cosa in particolare di quella musica ha più influito nella tua formazione artistica, ma anche umana?
 
Paolo
In Marocco sono rimasto molto poco: i primi tre anni. Poi abbiamo girato diversi paese dell’Africa Occidentale (Guinea Bissau, Mali, Senegal…) Fin da giovani, io e mio fratello coltiviamo una certa passione per la musica di quelle parti. Io mi sento attratto dal chitarrismo “maliano” (in realtà è più proprio parlare di cultura mandè). È un blues secco e primordiale, di cui mi attrae l’idea di circolarità che vi è sottesa. Devo dire di non essere un amante del blues americano: non l’ho mai ascoltato né tanto meno suonato. Questo ovviamente fa di me un chitarrista molto incompleto, perché non ho quella libertà che il blues ti insegna. Ma la realtà è che vi trovo anche una certa ridondanza, un ridursi della struttura armonica a “canzonetta”. Cosa che non trovo mai nel chitarrismo dell’Africa occidentale, dove il canto è una nenia e le chitarre disegnano orizzonti molto ampi. La rebellion è chiaramente un tributo ad Ali Farka Tourè; c’è addirittura la citazione di un suo fraseggio nel finale. Sol maior para comandante è un tradizionale maliano che ho imparato a modo mio, quindi sbagliando molte cose. Ma il vento che vi si respira è quello del deserto.  
 
Davide
Ho letto che attualmente vivi invece tra la Valle Brembana e la Lusitania. Esiste davvero il mal d’Africa?
 
Paolo
Non posso dire né sì né no. Ho vissuto in Africa da bambino, o poco più. Questo fa di quel continente, ai miei occhi, una specie di miraggio, o illusione. Come accade molto spesso ai paesaggi della nostra infanzia. Credo che il “mal d’Africa” sia qualcosa che si prova se la si vive da adulti, con una coscienza maggiore delle differenza tra “qui” e “là”.
 
Davide
… E che vivi principalmente di teatro e di insegnamento?
 
Paolo
Sono diplomato in regia teatrale e per diversi anni, e tuttora, includo il teatro tra le mie varie attività. L’ho sempre vissuto come un modo per “fare cultura”. La pratica del palcoscenico come attore mi ha insegnato molto, questo è certo: il controllo delle emozioni e la dimestichezza con il fatto di essere sul palco a rappresentare per una platea.  Si prova il piacere unico dell’adrenalina, che dà dipendenza. Non riesco a pensarmi lontano dalla scena, qualsiasi essa sia. L’insegnamento è un corollario: insegnare teatro o insegnare letteratura e lingua italiana. Un’esperienza gratificante soprattutto per il rapporto con i testi, che continuano ad essere parola viva.
 
Davide
Quando e come hai cominciato a scoprirti musicista e cantautore?
 
Paolo
I primi esperimenti risalgono all’adolescenza, più o meno ai 15 anni. Complice l’ascolto massiccio di De André. Ho iniziato a scrivere canzoni e ho continuato a fasi alterne, senza una reale continuità. Poi ci sono state varie esperienze musicali fino ad approdare all’idea di arrangiare con una band le canzoni scritte durante gli anni. Un modo per raccogliere le idee seminate nel corso del tempo, a cavallo di esperienze e influenze musicali diverse: il cantautorato italiano, la musica world, ma anche il rock britannico.
 
Davide
Del tuo primo lavoro, “La caduta delle città del Nord” hai avuto un ottimo riscontro della critica e un po’ meno da parte del pubblico. Quali considerazioni ne hai tratto?
 
Paolo
Le buone critiche fanno sempre piacere: alcune sono state lusinghiere, altre più fredde. Ci sono state anche delle sonore bocciature al primo lavoro. Col tempo si impara a non drammatizzare; la musica è un mare magno, è normale che ognuno, critici compresi, segua la sua onda e di conseguenza abbia anche dei gusti precisi. Non c’è nulla di universalmente bello, a parte forse certi capolavori. Il primo disco è stata una esperienza importantissima: tutt’oggi quando lo risento vi trovo una maturità d’arrangiamento notevole per essere un album d’esordio. In realtà anche il pubblico ha sempre bene accolto le canzoni, che hanno dalla loro una certa immediatezza.
 
Davide
Diceva Angus Young: prima di iniziare faccio un po’ di sollevamento pesi con la sigaretta, poi il concerto inizia e da quel momento in poi vedo l’unica cosa che vedo sono i miei piedi… Ad aprile sono già in programma una decina di date nel Nord Italia. Chi ti accompagnerà dal vivo? Come vivi il concerto?
 
Paolo
La tournée è ormai finita, ed è stata una bella esperienza per diversi motivi: non mi era mai successo di avere due settimane fitte di concerti. Questo ti permette di sentire l’evoluzione della band e dello spettacolo. Man mano acquisti sicurezza come esecutore, capisci meglio la natura della tua proposta e la forza che ha sul pubblico. Per questo tour eravamo in quattro: io, Mauro Mazzola alle chitarre elettriche, Davide Terrile al basso e Gionata Giardina alla batteria. Un quartetto classico, una soluzione che mi lasciava inizialmente perplesso per l’assenza delle tastiere, che nella mia musica hanno un ruolo piuttosto importante perché completano il quadro. Alla fine però non ne abbiamo realmente risentito: le canzoni erano più crude ma ugualmente efficaci. In questo tour la sensazione è che realmente sia nata una band con qualcosa di unico e prezioso da offrire. Il concerto alla fine è questo: un incontro tra noi e il pubblico, complici la musica e i testi che proponiamo. C’è un buon equilibrio tra parole e arrangiamento, tra cantautore e rock band: il pubblico l’ha capito e ci ha seguiti, cogliendo le diverse influenze del progetto e la diversa natura delle canzoni.
 
Davide
Che ricordo hai della tua partecipazione a “Il Tenco ascolta”? Qual è stato il momento più incoraggiante, ma anche quale (se c’è stato) più sconsolante sulla tua strada di autore e musicista?
 
Paolo
Partiamo dai momenti bui: ricordo un concerto del 2010, era il 25 aprile, in un locale vicino a Pavia. Eravamo solo noi e il fonico. In queste occasioni ti chiedi veramente che senso abbia continuare a fare musica propria quando non c’è evidentemente molta curiosità. “Il Tenco ascolta” è arrivato nell’autunno dello stesso anno, in un momento di stagnazione. È stato molto incoraggiante: essere scelti a livello nazionale ti fa sentire che c’è qualcuno che ti ascolta e dà importanza a quel che fai. Ti restituisce un senso. Nello specifico poi il concerto andò anche piuttosto bene. Band affiatata e buona esecuzione.
 
Davide
L’album ha un inizio veloce e più energico, gradevolmente scarno, in “Amore amore amore” e “Dal carcere” per poi assestarsi e concludersi intorno ad atmosfere più rilassanti e quiete. L’impressione è che il silenzio sia stato da te soppessato sia nella composizione, sia negli arrangiamenti e nella registrazione, come un elemento da usare ed equilibrare altrettanto importante quanto il suono, il pieno. Una cosa abbastanza rara in Italia e nell’Occidente. Charlie Chaplin disse che il silenzio è un dono poco apprezzato e che i ricchi comprano rumore… Cos’è per te il silenzio?
 
Paolo
Il silenzio è ciò che circonda le parole, i suoni e le emozioni. È anche la condizione necessaria perché questi esistano. La maturità di un musicista si misura un po’ dal modo in cui riesce a gestire l’equilibrio tra pieno e vuoto, silenzio e musica.  “La caduta” era un disco molto affollato. Questo secondo album cerca una maggiore essenzialità. Complice il modo in cui vi abbiamo lavorato: tutti gli arrangiamenti sono nati attorno alle tracce chitarra e voce, cercando di arrivare ad una giusta misura che completasse e aiutasse la canzone ma senza sovraccaricarla. Il silenzio, o meglio, il vuoto, è anche materia del discorso del disco: un certo mettersi a nudo nei testi, la ricerca di un’essenzialità. Gli strumentali poi hanno un ruolo importante: le parole scompaiono, resta la musica. È un invito per l’ascoltatore a vivere in modo più immediato l’atmosfera del disco. È un disco cupo, ne sono consapevole, un disco per chi ha voglia di ascoltare.
 
Davide
Parlaci di “Bintou Wère, Une opera du Sahel”, al cui allestimento hai partecipato nel 2007. È stata davvero la prima opera lirica africana?
 
Paolo
Lo è stata in senso ufficiale, se ci rifacciamo alla frase secondo cui “la storia la scrivono i vincitori”. In questo caso il vincitore è la Fondazione Olandese che ha finanziato il progetto. In realtà l’Africa conosce altri tipi di produzioni culturali in cui sono associati teatro e musica, senza che si chiamino “opere”. L’opera è un “format” occidentale: un testo teatrale completamente cantato e agito da diversi personaggi. Vista in quest’ottica, sì, “Bintou Were” è stata la prima esperienza operistica africana. Devo poi dire che, al di là di questi dettagli di definizione, per me è stata un’esperienza molto ricca: vi ho preso parte come uditore (era il mio argomento di tesi) ed ho finito per recitarvi come mimo (serviva un bianco ed ero a disposizione). Ho visto suonare grandi musicisti della scena saheliana, ho consolidato la mia conoscenza della musica di quell’area… mi sono fatto un po’ le orecchie, insomma.
 
Davide
La parola deserto viene da un verbo che in latino significa abbandonare o anche de serere, non più legato… Cos’è per te “libertà”?
 
Paolo
Poter vivere di musica.
 
Davide
Cosa farai quest’anno?
 
Paolo
Una tournée in autunno di tre settimane?
 
Davide
Grazie e à suivre…

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