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Melancholia

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Spietato, lunare, metafisico, fantastico, tellurico e concreto. Stavolta il bistrattato Von Trier ha superato se stesso sia per la tematica scelta che per la sua realizzazione articolata in un bell' incubo borghese. Il plot è scandito dagli interni di una vaga estate svedese in cui si festeggia un matrimonio già in imminente fallimento, dentro uno scenario di cavalcate in campagna paradossalmente ancora più opprimente. La situazione presente sia reale che immaginaria dell'uomo sulla terra, sembra essere davvero pesante, diffusamente depressiva. Esiste una naturale degenerazione verso la morte accanto ad una innaturale degenerazione degli esseri umani, carenti ormai di valori filantropici, verso l'autodistruzione: “…la terra è cattiva…” recita l' inquietante voce della protagonista all'inizio della seconda parte del film, quella cosmogonico-apocalittica che culminerà con un antico rituale tribale nel tentativo di propiziare le forze naturali più ostili verso un destino tutto da indovinare.
Melancholia è il racconto di uno stato del corpo e della mente che tutti, almeno qualche volta nella nostra vita, abbiamo sperimentato come conseguenza ed evoluzione della nostra emotività.
Il film dell'ardito danese prende spunto dall' irresolutezza di Justine, tristissima Ofelia che incoraggia il ricordo di fotografici pittori del calibro di Friedrick, Magritte, a ritroso fino ai preraffaelliti, ma è intrisa anche di canonica bellezza moderna, procace e cinica.
Il misantropico più che misogino Von Trier tratteggia due meravigliosi profili femminili, in attrito e in armonia, pratici e lungimiranti, che vengono fuori nel corso del film con la lentezza necessaria ad esprimerne complessità e risvolti, cui fanno da sfondo una serie di caricature maschili inette e spaventate. La Gainsbourg ha un ruolo dimesso, fisicamente mortificato ma altresì intenso. Alla splendida Kirsten Dust è demandato invece tutto il potere seduttivo della mente riflessiva e imprigionata e del corpo libero e disinibito che trascina oltre la mente stessa, disteso nudo all'ombra di uno sconvolgente plenilunio o in aggressivo amplesso.
Von Trier incalza con scenari che rosicano l'anima fino a farla interagire in una lenta e spietata danza di morte con la malinconia, pianeta saturnino o pianeta iperuranico che entra gradualmente in orbita terrestre. In ogni caso ciò che conta è raccontare quello che accade ad ogni essere umano quando si avvicina la malinconia. Si assapora una dolce atmosfera rarefatta ma si corre sempre il rischio di rimanere all'improvviso paralizzati, risucchiati da un baratro di tenebra “con fili grigi di lana che legano le gambe”, dice la protagonista quando deve descrivere cosa le succede. Ma la più pericolosa depressione è anche stanchezza e male del vivere quotidiano, disordine genetico come ben interpreta Durer nella sua “Melencolia I”, allegoria femminile grandiosa e inerme, circondata dal tempo bloccato di una clessidra, da un cane smunto, un quadrato magico e altri oggetti fuori rotta.
“Ognuno è solo sulla faccia della terra/ed è subito sera”.. sembra questo il recondito pensiero su cui concentrarsi. Se per Victor Hugo “la malinconia è la gioia di sentirsi tristi”, si potrebbe dire che Von Trier ne connoti ulteriormente il significato affermando che è anche bellezza, intelligenza, scaltra consapevolezza che, dietro il velo di maja di un'apparente passività, conforta e incoraggia. Ma è anche indolenza e nostalgia verso ciò che non si è potuto avere o che si è avuto ma ha subito una sorta di deperimento o morte (il lutto della psicanalisi) o si predispone in una languida inclinazione della testa, quella di Durer per l’appunto, che porge uno sguardo visionario e onirico verso l'ineluttabilità delle cose che fluttuano e a nostra insaputa mettono in scacco una fallace volontà sempre sopraffatta dall’imprevedibilità del mistero ma anche dal caos.
 

 

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