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Àlighe – Roberto Pagan

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edizioni Cofine, 2011
 
Pier Paolo Pasolini attribuiva al dialetto valenza politica, in quanto espressione della purezza del ceto contadino, costretto ad una vita difficile, il quale, peraltro, insieme con la sua lingua, andava a scomparire sotto i colpi della società di massa. Ma, per un altro verso, la sua opzione dialettale è di natura sentimentale e manifesta il bisogno di un ritorno alla madre, alla terra, all’infanzia. Pertanto, nella sua poesia in vernacolo egli esprime “in maniera straziante, secondo Vincenzo Mengaldo, il bisogno fisiologico di tornare alle proprie origini dialettali e contadine e la disperazione frustrante per l’inanità di questo tentativo”.
Si cita Pasolini, tra i numerosi poeti dialettali nostrani, perché anche l’autore di Àlighe, tenta un ritorno e un recupero. Il ritorno è di tempo e di luogo, nel liquido amniotico protettivo nel quale immergiamo sovente la nostra fanciullezza e persino la gioventù quando gli anni sono passati e nel ricordo si fissa, con un alone incantato, quell’età dell’oro delle opportunità e dei progetti, che poi la vita, scorrendo, s’incarica spesso di fare a pezzi. Il recupero è quello di una parlata dismessa, che torna per esprimere quei momenti e quei paesaggi che in nessun’altra favella avrebbero potuto essere scovati e narrati.
Bisogna premettere che la pubblicazione del libro è l’esito del premio nazionale di poesia in dialetto Città di Ischitella, Pietro Giannone, nel quale la silloge si è imposta al primo posto e già questo ne testimonia l’alta ispirazione.
Roberto Pagan, proprio come Pasolini, vive da molti anni a Roma e ha dovuto ritrovare dentro di sé le voci della sua infanzia, impegno, in fondo,  non difficile se, come dice, i veci/ se sa ch’i camina la testa voltada de drio.
Il ritrovamento della lingua nativa coincide col recupero dello stupore, degli occhi affascinati e della leggerezza di allora. Persino il movimento del verso si avvicina sovente a quello della filastrocca, della poesia rimante, analogo al ritmo della poesia dell’infanzia. In un gioco di specchi l’autore va e viene nel tempo, osserva l’oggi che ha modificato l’antico scenario, essendosi smarriti, lungo il percorso degli anni, non solo luoghi, persone e usanze, ma anche la comprensione dell’antico idioma condiviso. I giovani, i mestieri, gli antichi usi non si ritrovano più. Neanche i colori sono gli stessi.
E inveze no trovo più gnente/ de quel che zercavo. La zità/ xe compagna, solo un poco più vecia,/ ma i muli e le mule xe altri,/ se vedi, quei che mi conossevo, emigradi,/ se vedi, ne l’aria, nissun no conosso/ nissun che me guardi.
In verità, se pure luoghi e persone fossero rimasti immutati, lo smarrimento per il poeta sarebbe stato il medesimo, perché è altro quello che è venuto a cercare, vale a dire il senso della nostra vita e quello della morte e in particolare della sua esistenza, che allora sembrava dischiudersi su uno scenario di  opportunità che almeno in parte tali sono rimaste.
È tornato, dunque, a srodolarse el fil de la matassa/ fin dal prinzipio, se ghe era un gropo/ un segno un fotogramma che qualcossa s-ciarissi, che una ciave/ qualunque la verzessi/ ‘sta seradura benedeta.
Ci si parano davanti personaggi, come figurine di carta, che esercitavano mestieri ormai persi, signore che decoravano salotti buoni, avendo alle spalle le buone cose di pessimo gusto e intorno il vociare dei bambini.
Sonava/ la campanela e le rivava puntuali el dopopranzo/ tedesche de natura, fie de l’ordine, borghesi/ se capissi fin l’osso del midolo, ma no riche/ tignude ben, i guanti, la su’ peliza.
Inoltre, Pagan rivede la casa natale, su cui ci sarebbe stata, se appunto il successo fosse stato agguantato, una lapide a ricordo, da quando fu indicato come una promessa della poesia ed ebbe frequentazioni con Giotti, Stuparich, Anita Pittoni e persino con Saba.
Come el soldo i me conosseva/ e el còcolo iero/ de Gioti, de Stuparich, de la Pitoni, un poco perfina/ de Saba.
Forse sarà proprio la morte a riaprire i suoi cassetti e permetterà a qualcuno di riconoscere il suo talento, il più tardi possibile, per carità.
Occorre sottolineare che l’ironia vigila attenta su tutta la composizione, impedendole di cadere nel patetico, nel manierato, nello sdolcinato che costituiscono il pericolo della letteratura memoriale.
E, di seguito, tornano le due guerre, la scuola e, insomma, tutto il piccolo mondo borghese e dignitoso che lo contenne, perché abbiamo di fronte un libro poetico di reminiscenza, che ci consegna medaglioni di un’epoca inesorabilmente trascorsa.
Poi il poeta torna diritto al presente a riconsiderare la sua vita intera, perché la scrittura del libro appare proprio, come si diceva, l’estremo tentativo di trovare il bandolo della matassa esistenziale, penetrare il mistero che ci avvolge e che si assiepa nel susseguirsi dei giorni. Trova però tangibili solo le delusioni che si affastellano ai fianchi della creatura, della quale resta una scia di ricordi e frustrazioni, come tanti oggetti consunti, consegnati alle casse delle cantine, che oramai non servono più a nessuno. In questo tentativo di carpire l’arcano, dice di guardare  pecore e ciuchi, bestie antiche, ma forse neanche a Trieste queste bestie si usano più per i lavori o per il gregge.
Più umani degli uomini sono gli animali del libro. Un tenerissimo zoo di elefanti, ciuchi, cani, farfalle, cigni, che hanno molto da insegnarci con il loro coraggio e rettitudine, sentimenti, come quello della reciprocità, che gli uomini hanno dismesso.
Noialtri nel branco vivemo/ pestandose i cali uno co’l’altro tacati ale liane/ de l’egoismo. E co’ xe el momento, morimo/ ma da soli.
Pagan comincia quasi la sua narrazione poetica con una considerazione sul dialetto, di cui si è riappropriato, la lingua che entra nei neuroni e nelle ugole insieme alla bora, per onomatopee, assonanze, in un’aderenza  al vero viva e naturale.  Il dialetto ha funzione mimetica, in quanto aderisce alle cose direttamente, parla in concretezza.  Una lingua che fa persino paura perché a ripercorrerla può tirare fuori qualsiasi cosa, come vecchi fantasmi che si credeva riposti in un luogo irraggiungibile dove solo Freud sa.
‘Sta lingua che più no se parla/ che nissun no capissi// me sento stranido, me vien mal de mar/ paura me vien de i fantasmi/ che no i se dismissii nel scuro/ nel fondo de mi.
E su tutto grava la malinconia di un mondo ancora innocente che è scomparso, tale almeno nella memoria che abbellisce tutto. E insieme ad esso si sono perse le prospettive perché l’età non consente di modificare oramai la propria strada.
Non è un libro disperato e nemmeno triste. È il libro della saggezza e dell’ironia che tocca le persone che continuano a meditare nel corso degli anni senza inasprirsi, conservando un cuore pulito e sentimenti pacifici e nobili per l’orbe terraqueo nella sua integrità, o come si direbbe oggi, per l’ecosistema, compromesso dall’insipienza umana.

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