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Venezia 2011

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68a Mostra Internazionale D'arte Cinematografica
 
Partiamo dalla fine. Dai premi. Dopo le discusse decisioni della giuria dell’anno scorso, probabilmente troppo influenzate dai giudizi del suo presidente Quentin Tarantino, anche quest’anno ci si trova un po’ spiazzati a commentare i vincitori del Festival. Scontato il Leone d’Oro al “Faust” di Aleksander Sokurov, da tutti indicato come imprescindibile (ma qualcuno ci ha creduto veramente, attraverso le palpebre abbassate dei 134 minuti di pellicola, non potendo criticare un capolavoro annunciato del vero cinema d’autore? – cosa che mi riporta parallelamente al “The Tree of Life” di Malick vincitore a Cannes). Perlomeno discutibili gli altri premi: Leone d’Argento per la migliore regia a Shangjun Cai per il film “Ren Shan Ren Hai (People Mountain People Sea)”, il solito film cinese a sorpresa di quest’anno, durante la cui prima “infuocata” (letteralmente) proiezione per la stampa (principio d’incendio ridimensionato ad un semplice corto circuito di una lampada), la metà della sala si è defilata giovandosi dell’incidente, ed il Premio Speciale della Giuria a “Terraferma” di Emanuele Crialese (un altro “prolifico” regista italiano alla Moretti) che bissa il premio del 2006 per “Nuovomondo”. Più scontati i premi agli attori: Coppa Volpi, assolutamente meritata, per la migliore interpretazione femminile a Deanie Yip nel film “Tao jie (A Simple Life)” di Ann Hui (Cina – Hong Kong), e Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Michael Fassbender nel film “Shame” di Steve McQueen (Gran Bretagna), il vero nuovo sex simbol del Festival di quest’anno che, con un paio di inquadrature delle proprie virtù, ha sbaragliato il campo dei concorrenti. Anche fra i premi minori c’è stato qualche dubbio, soprattutto per l’Osella per la migliore sceneggiatura a Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou per il film greco “Alpis (Alps)”. Completamente esclusi dai giochi il Polanski di “Carnage”, divertente commedia molto apprezzata nella versione originale in sala, “A Dangerous Method” di David Cronenberg alle prese con Carl Jung e Sigmund Freud, interessante film sugli inizi della psicanalisi, “Killer Joe” di William Friedkin, un piccolo gioiellino degli ultimi giorni, e “The Ides Of March” di George Clooney, da premiare se non altro per aver rotto con la Canalis. Per i premi delle altre numerose sezioni della Mostra, volevo solo segnalare per la categoria Orizzonti il Premio Speciale della Giuria (riservato ai lungometraggi) a “Whores’ Glory” di Michael Glawogger (Austria, Germania), che dopo “Workingman's Death” visto sempre qui a Venezia nel 2005, conferma di essere uno dei migliori documentaristi in circolazione.
Alla Mostra del Cinema di Venezia ci sono cose, comunque, che fanno preoccupare ben più del solito e sterile passatempo dei premi. Ci s’interroga se il progetto del “nuovo” Palazzo del Cinema, ormai seppellito sotto un campo di macerie di cemento amianto, vedrà mai la luce.
 
 
Altra storia già vista, altra storia italiana, doveva rappresentare l’opera di punta per le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. È rassicurante il fatto che il direttore Paolo Baratta, proprio in virtù di questo appuntamento mancato, abbia annunciato “un ruolo più diretto nella gestione dei siti e dei luoghi della Mostra”, e con orgoglio l’avvio dei nuovi lavori di restyling di tutte quante le strutture già esistenti, andando di pari passo con le nuove tecnologie digitali e tridimensionali. Ed a tempo di record si è potuto così assistere al restauro ed alla riqualificazione della Sala Grande, che con le nuove poltroncine, ci ha permesso di essere comodamente seduti ad assistere alla prima di quel capolavoro digitale di “Box Office 3D”, di Ezio Greggio (grande rammarico, non essere riuscito a vederlo…). Ma questo è solo l’inizio. Stessa sorte avranno il prossimo anno anche la sala Darsena e la Sala Perla, le altre due sale fisse principali presenti nella cittadella del Festival. Parliamoci chiaro, è come imbiancare le stanze perché troppo poveri per acquistare un appartamento nuovo…
Ma al di là delle solite critiche che lasciano il tempo che trovano, posso affermare che il Festival di quest’anno è stato notevole. Non mi era mai capitato, nella ormai decennale esperienza festivaliera, di assistere ad una selezione così ricca, sia nelle collaudate sezioni autonome della Settimana della Critica e delle Giornate degli Autori, sia nelle sezioni ufficiali, Orizzonti e Venezia 68. Soprattutto il concorso, dove spesso le pellicole da segnalare sono rare, quest’anno ha offerto un numero sorprendentemente alto di lavori da tenere in considerazione. Oltre ai già segnalati Polanski, Cronenberg, Friedkin, Sokurov, si sono apprezzate le pellicole di Johnnie To “Duo Mingjin (Dyut Ming Gam) (Life Without Principle)”, di Todd Solondz “Dark Horse”, di Steve McQueen “Shame”, di Ann Hui “Tao Jie (A Simple Life)” e di Tomas Alfredson “Tinker, Tailor, Soldier, Spy”. Inoltre, fosse per me, le sezioni Settimana della Critica e Giornate degli Autori, le accoglierei, ogni anno, in blocco, nella programmazione della nuova stagione al cinema Rosebud della mia città. Alcuni titoli su tutti, “Stockholm Östra” di Simon Kaijser Da Silva, “Toutes Nos Envies” di Philippe Lioret, “Portret V Sumerkakh (Twilight Portrait)” di Angelina Nikonova, “Café De Flore” di Jean-Marc Vallée, rappresentano cinematografie e registi ormai consolidati nel panorama europeo.
Luci ed ombre invece per il cinema italiano presente al Festival, quest’anno decisamente numeroso, concentrato particolarmente nella sezione Controcampo Italiano. Al di là del generoso e forse immeritato, visto le altre opere in concorso, Premio Speciale della Giuria, Emanuele Crialese rimane però uno dei poche registi italiani in concorso a Venezia degli ultimi anni, che abbia capito come presentare un film per il Festival, grazie alla cura cinematografica delle sue opere ed agli argomenti affrontati (sarà infatti la sua pellicola a rappresentare l’Italia agli Oscar, per il miglior film straniero, del 2012). Nella maggioranza delle pellicole, il cinema italiano rimane sempre, come media delle opere, piuttosto mediocre. Difficilmente si riesce ad uscire dal genere della commedia, ormai bene rifugio della maggioranza dei registi di casa nostra, che inevitabilmente si inflaziona, ormai specchio fedele della distribuzione nella stagione cinematografica. Nonostante ciò alcune pellicole meritano di essere segnalate. Fra le numerose commedie forse solo “Scialla!” di Francesco Bruni, e “Missione di Pace” di Francesco Lagi, offrono qualcosa in più, anche per la bravura dei propri protagonisti. Per le “non commedie”, “Io sono Li” di Andrea Segre è un interessante film sull’immigrazione cinese, in un contesto provinciale, con l’ambientazione atipica e suggestiva della città di Chioggia. Intriganti anche i quattro episodi del film “Scossa” dei registi Francesco Maselli, Carlo Lizzani, Ugo Gregoretti, Nino Russo, pellicola che ricostruisce il devastante terremoto di Messina del 1908. Paradossalmente, invece, quando il cinema italiano affronta argomenti pesanti, storie drammatiche, si esagera nel senso opposto, caricando troppo le ricostruzioni e proponendo personaggi eccessivi, e per questo non più credibili. È stato il caso di due film molto attesi quest’anno, “Ruggine” di Daniele Gaglianone (Giornate degli Autori), tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron, e “Quando La Notte” di Cristina Comencini (in concorso), accolti da differenti reazioni, pellicole accomunate dalla spiacevole, ma incolpevole, interpretazione di un bravo attore come Filippo Timi, travolto dalla brutta sceneggiatura e costretto anche a doverle difendere, per buona pace del cinema italiano.
Dal punto vista organizzativo, a parte la minore (positiva) presenza di spazi “commerciali” e di contorno, c’è da segnalare il ritorno alla proiezione unica per la stampa, causa il gran numero di pellicole selezionate per la Mostra. Ovviamente la cosa ha avuto ripercussioni, soprattutto nel primo weekend del Festival, situazione normalizzata nella seconda metà grazie anche alla partenza di molta stampa ufficiale per il contemporaneo inizio del Festival di Toronto. La doppia proiezione divisa fra stampa ufficiale e media press-industry, era stata istituita qualche anno fa dopo le rimostranze di qualche regista di casa nostra, contestato durante la proiezione del proprio film, proteste motivate all’epoca dalla presunta presenza di accreditati che non appartenevano alla stampa ufficiale. Paradossalmente, proprio nell’anno del ritorno ad una situazione di promiscuità, un’altra regista italiana, Cristina Comencini, si è lamentata per il trattamento ricevuto dalla propria pellicola. Direi che ormai questo alibi ha anche un po’ stancato. Sono d’accordo che durante le proiezioni dei film bisogna tenere un comportamento rispettoso soprattutto nei confronti degli altri spettatori che vogliono seguire attentamente, però così come è consentita l’approvazione, deve essere consentita anche la critica negativa, e soprattutto è auspicabile un po’ di umiltà anche da parte dei registi nel giudicare obiettivamente un proprio lavoro, senza portare a pretesto il consenso, non significativo, durante le proiezioni in Sala Grande per il pubblico, troppo spesso indirizzato nei propri giudizi dalla presenza degli addetti ai lavori.
Il finale è tutto dedicato al probabile ex direttore del Festival delle ultime otto edizioni, Marco Müller, il direttore più longevo nella storia della Mostra. È lecito e sensato cambiare, anche se eventualmente in peggio, senza fare drammi ed avere rimpianti. C’è però da riconoscere che l’era Müller è stata estremamente positiva. Tre aspetti hanno caratterizzato il suo mandato. Aver creato un’organizzazione riconoscibile, dove le persone si sono abituate a seguire una certa logica, soprattutto negli accessi in sala, evitando continue eccezioni e conseguenti discussioni come si era abituati precedentemente al suo arrivo. La sua grande cultura cinematografica e la sua indipendenza, che gli ha consentito di ascoltare tutti ma poi di assumersi le responsabilità di attuare le proprie scelte personali, auspicabili per condurre una Mostra dove si viene chiamati per le proprie riconosciute qualità, senza farsi influenzare dalle critiche di eccessiva “orientalità”, comunque legittima, in quanto sua grande passione ed espressione di una sua idea di cinema. L’ultimo aspetto, apparentemente in contrasto con il punto precedente, ma in realtà complementare, aver portato a Venezia tanto cinema di qualità e di tante cinematografie differenti, non precludendo nessuna nazione e nessun genere (e i tanti Leoni d’Oro alla carriera di questi anni ne sono la prova). Pur mantenendo il carattere di ricerca e di sperimentazione di una Mostra del Cinema, non ha disdegnato di aprirla a cinematografie con tradizioni più popolari come quella americana, riuscendo a coniugare l’aspetto culturale con quello festivaliero, che sono potuti coesistere insieme senza ostacolarsi e sovrastarsi a vicenda. Anche nell’eventualità di avere un altro direttore del Festival, mi rallegrerò comunque del fatto che probabilmente Marco Müller non si allontanerà dal mondo del cinema, qualsiasi cosa cui sarà destinato, direttore o produttore che sia. Vedremo il prossimo anno, prontamente disinvolti a far subito nuovi confronti…

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