KULT Underground

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Non lasciarmi

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C'è un tipo di malinconia che procura felicità. E' quella che, pur sottolineando la caducità della nostra condizione di esseri viventi, viventi in quanto prima o poi morenti, ci restituisce il senso più profondo della nostra finitezza immergendola nello sguardo e nel sentire infiniti. Cogliere l'infinito significa, nel modo più completo di intenderlo (probabilmente quello leopardiano), avere capacità di sguardo infinito che permettano alla percezione di sporgersi e all'emozione di smarrirsi dopo essere precipitata. Ciò può rendere permeabile il nostro confine corporale e addirittura estasiarci, almeno temporaneamente. Al termine di questo amplesso saremo costretti a ritornare dentro la nostra finitezza ma dall'immensa navigata universale, avremo trasferito in noi stessi un pezzo d'intensità che, per quanto indefinibile, rimanderà alla morte il desiderio di allontanarsi da noi e lascerà il tempo interdetto. Questa è una delle molteplici chiavi di lettura, ammesso che esista una possibilità precisa di definizione, del romanzo archetipico dell'anglo-giapponese Kazuo Ishiguro o, se si preferisce, la fedele e originalissima resa cinematografica di Mark Romanek.
Parliamo di un romanzo del 2005 e di un film del 2010 ma, mentre la nostra storia incalza nella posa horror dei suoi business tentacolari che dal traffico d'armi puntano dritti a quello di organi e persone, dalle disuguaglianze sociali alle malattie, dalla vendita del corpo al commercio dell'anima, sembra di una certa rilevanza rimuginare su queste impalpabili tematiche, perché questo romanzo-film potrebbe stabilire un discrimine tra il nostro passato di esseri umani e il nostro futuro di umanoidi e trasformare l'ipoteca di un presente limbico in consapevolezza. L'idea inseguita sembra quella della necessità di fissare un orizzonte comune, sia di senso che di osservazione, facendo tabula rasa di ogni scorcio di ovvietà ed evitando di concludere l'esplorazione con sentenze relativizzanti. Si parla di cloni e di donazione istituzionalizzata di organi, eppure non c'è fantascienza, l'argomento è estremo ma riconduce tutto dentro il confine della normalità. Si parla anche tiepidamente di scienza ma non c'è disumanizzazione, di diversità ma alla fine, in una sorta di big bang dell'anima sociale, emerge solo una sensazione di uguaglianza nelle differenze. Ci parla di predestinazione rendendo il destino l'unico reale simbolo della trasfigurazione di ogni potere e connotandolo di un alone sovrumano disperato dove la vita, paradossalmente e con margini impercettibili di libero arbitrio, alla fine ha la meglio. In questa narrazione, smarrimento e annientamento di scale valoriali acquisite, rivoluzionano i canoni spazio-temporali della coscienza e dilatano il nostro sguardo occidentale ottuso e limitato. L'amore, forse, non ci dovrebbe deludere mai e se ci ha deluso lo abbiamo guardato con occhi distratti, abbiamo tentato di ingabbiarlo o lo abbiamo maltrattato. Ogni amore rispettato è un segno di rispetto per l'universo che non potrà mai tradirci perché in cambio avremo fluttuanti tracce di organica vivacità che si mescoleranno con altre tracce di umanità e così il motore della terra non si spegnerà mai. Noi esseri viventi, dai più fortunati e liberi ai più ingabbiati, sembra dirci Ishiguro con il suo rumoroso silenzio orientale, possiamo godere dell'intensità dell'esistenza tramandando molecole di noi, rimandare il più possibile la morte e proteggere la nostra unicità sottoposta, tuttavia, all'ineluttabile compimento di un ciclo. Dovremmo essere placide fisarmoniche, sorridenti meccanismi, sospesi alieni, tentando di scoprire dov'è, di volta in volta, il vero appagamento ossia l'appuntamento della nostra anima con il mondo. Dunque la malinconia dell'Occidente e l'armonia dell'Oriente si fondono in una prospettiva salvifica attraverso una straziante ma estatica iniziazione. Non poco in tempi devastati da finte democrazie, confusi laicismi e vampirizzanti economie.

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