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L’amaro caso della Baronessa di Carini (1975)

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L’AMARO CASO DELLA BARONESSA DI CARINI (1975)

…Viu viniri la cavalleria / chistu è mi patri chi vini pi mia / tuttu vestutu a la cavallerizza / chistu è mi patri chi mi veni ammazzari / signuri patri chi vinisti a fari? / signora figghia, vi vegnu ammazzari / lu primi colpu la donna cadìu / l’appresso colpu la donna murìu / povera barunissa de Carini..

Risale al 1975 l’epoca d’oro degli sceneggiati RAI che letteralmente hanno costruito la storia della televisione, anticipando i moderni e attuali reality e le serie oggi più seguite ed amate.

Negli anni ottanta con i volti suggestivi di Nino Castelnuovo, Ugo Pagliai, Alberto Lupo, Paolo Stoppa, Adolfo Celi e altri grandi del cinema e del teatro italiano si snodarono sul piccolo schermo una serie di sceneggiati e film per la televisione di incredibile successo, da Ritratto di Donna Velata a Dov’è Anna, da A come Andromeda a Il Segno del Comando, un lungo elenco di successi, tutti rimasti indelebilmente impressi nell’immaginario collettivo.

Forse perché all’epoca non c’era la concorrenza di altri canali, non esistevano le televisioni private o satellitari, e andare al cinema era ancora un’esperienza limitata, riservata a certe domeniche particolari da trascorrere in famiglia, questi sceneggiati TV ebbero un seguito elevatissimo, un vero trionfo di quell’audience a cui oggi si tiene tanto, e che mai sarebbe possibile replicare.

Eppure, a ben guardare, non si trattò solo di questo, perché, se al solo ritmo di questa antica ballata del cinquecento, magistralmente riportata da Gigi Proietti, in un siciliano strettissimo, qualcosa si agita nella nostra memoria e le immagini ricominciano a scorrere fluidamente come per magia davanti a noi, allora significa che di quei telefilm è rimasto molto più del ricordo, significa che hanno lasciato una traccia indelebile come solo i grandi capolavori sanno imprimere.

Questi teleromanzi popolari presentati dalla Rai nei magici anni settanta e ottanta, impregnati di suggestioni goticheggianti, a metà tra il fantastico e il fantascientifico, costellati di grossi nomi della recitazione e della regia, sono stati a tutti gli effetti la fusione perfetta tra il fuilletton di ispirazione francese e le grandi tematiche veriste delle novelle italiane, rappresentando così una realtà favolistica che non poteva effettivamente non incontrare l’assoluto favore del pubblico.

L’Amaro Caso della Baronessa di Carini , è la trasposizione romanzata e trasferita in altra epoca di un’antichissima ballata cinquecentesca di cui esistono innumerevoli versioni, composta originariamente in dialetto siciliano, e poi riportata in italiano e in francese.


Come dimenticare Gigi Proietti, che da valente talento istrionico quale è canta in stretto dialetto siciliano le parole del poema originale, e la scena, reiterata per tutto lo sceneggiato, della povera sfortunata baronessa, colpevole di aver macchiato l’onore della famiglia, che fragile ed eterea nella sua camicia da notte bianca, tutta trine e merletti, soccombe agli assalti della lama, mentre la tela sottile si tinge di rosso, e la sua mano insanguinata si appoggia alla parete delle torre lasciando un segno indelebile, destinato a riapparire ad ogni anniversario della sua triste fine?

Liberamente ispirato alla ballata cinquecentesca, L’Amaro Caso della Baronessa di Carini, è la trasposizione romanzata di un fatto di cronaca nera realmente accaduto, rivisto in chiave storica differente, e collocato nel 1812, in piena era napoleonica, praticamente alle soglie della costituenda Unità d’Italia.


Nella Sicilia dei primi ottocento, si respira un’aria di costituzione liberale, gli interessi degli ex borbonici si vengono a scontrare con i nuovi fermenti piemontesi, è la fine del feudalesimo, a torto o a ragione venti di innovazione spirano alle porte d’Italia, gli antichi privilegi di razza e di casta stanno per crollare, i confini sono in procinto di essere ridisegnati, si pongono allo studio leggi nuove che, se promulgate, significherebbero la fine per le antiche famiglie nobiliari e per i loro secolari benefici territoriali.

Il principe di Castelnuovo, novello Ministro delle Finanze, avvia una massiccia opera di controllo e verifica sulla legittimità dei vasti possedimenti feudatari delle famiglie nobiliari ed incarica il funzionario Luca Corbara di effettuare i dovuti controlli sulle provenienze dei terreni e sulla loro proprietà giuridica.

Sono ormai sul punto di scomparire gli anacronistici privilegi dei ricchi proprietari terrieri, i signorotti dei feudi presto perderanno il loro diritto di vita e di morte sulle popolazioni locali, saranno costretti a rivedere le loro stesse concezioni di vita, si vedranno obbligati a riconoscere legittimità e diritti là dove fino ad allora era in vigore solo soprusi e tirannia.

Luca Corbara, vigorosamente interpretato da un Ugo Pagliai che fece tremare milioni di cuori femminili, decide, per motivi che saranno chiari solo alla fine, di iniziare le sue ricerche proprio dal feudo siciliano del Barone di Carini, don Mariano d’Agrò, interpretato da un Adolfo Celi cupo e inquisitore al punto giusto.

Ma il feudo di Carini è anche tristemente noto per un’antica leggenda che parla di onore e di morte, una tragica storia d’amore sfociata nel sangue ben tre secoli prima, e narrata da tutti i cantastorie della regione.

Il funzionario, sotto mentite spoglie, parte alla ricerca della verità, indaga sui confini del borgo feudatario, controlla la legittimità della provenienza, verifica i titoli di possesso, e intanto conosce intimamente la baronessa, donna Laura d’Agrò, della quale si innamora perdutamente.

Presto questa vicenda amorosa comincia a somigliare in maniera inquietante all’antico dramma delle ballate cinquecentesche, e la storia si tinge di leggenda, riportandoci in un viaggio a ritroso nel tempo ad assistere, come al rallentatore, all’esecuzione barbarica della sfortunata baronessa di Carini, uccisa dalla mano paterna, ma alcune leggende dicono dal marito, per lavare in qualche modo l’onta arrecata al blasone di famiglia dal suo fragrante adulterio.


L’antica ballata popolare infatti narra di un sanguinoso dramma d’amore, consumatosi nell’antico Castello di Carini nel 1563.

L’allora Baronessa di Carini, che apparteneva a una delle più potenti e rispettate famiglia della Sicilia, era una La Grua-Talamanca di nobilissimi natali e si era lasciata coinvolgere in una peccaminosa relazione amorosa con un avventuriero di pochi scrupoli, disonorando al contempo la nobile famiglia di origine nonché quella, non meno titolata, del marito.

Vittima dunque di un delitto d’onore per mano della sua stessa famiglia, perisce in una delle stanze della torre, dove leggenda vuole che l’impronta insanguinata della sua mano rimanga ancora impressa sulle mura, per ritornare visibile ad ogni anniversario della morte.

Questa vicenda cruenta di amore e sangue colpisce già allora l’opinione pubblica, che ne fa leggenda, e viene cantata e tramandata per secoli.

Il poema originario viene perfino tradotto dal siciliano stretto in cui era stato steso originariamente in lingua italiana e francese e poi tramandato ai posteri grazie all’interessamento di Otello Profazio.

Giunta fino al MilleOttocento la leggenda viene fatta oggetto di studi approfonditi da alcuni storici locali, Salomone-Marino e Aurelio Rigoli che ne hanno fedelmente ricostruito, per quanto possibile, la legittima realtà storica, dividendo e separando il mito dalla realtà, durante l’attento esame delle oltre quattrocento versioni scritte ed orali che esistono di questa antichissima ballata popolare.

Nel suo Leggende popolari siciliane in poesia, lo stesso S.Salomone-Marino la definisce “la più squisita, la più artistica, la più perfetta e celebre tra le leggende siciliane“.

Nulla da meravigliarsi dunque se, a quattro secoli di distanza, questa storia passionale abbia ancora colpito l’immaginario collettivo consentendo alla Rai di mettere a segno uno dei maggiori successi della storia della televisione.

La trasposizione storica nel 1871 consente agli autori dello sceneggiato di inserire la classica figura dell’investigatore che, a distanza di secoli, ripercorre le vicende familiari del Feudo di Carini, finendo poi per ricollegarle alla leggenda popolare. Il mistero si infittisce ulteriormente quando si scopre che Luca Corbara è in realtà un diretto discendente di quel Ludovico Vernagallo, antico amante della baronessa uccisa nel ‘500, e dunque legittimo erede del Feudo di Daina Sturi, arbitrariamente inglobato nella proprietà del feudo di Carini all’epoca dei fatti.

Nel corso delle quattro puntate la tensione va in crescendo e molte vicende si intrecciano alla storia d’amore dei due protagonisti, che presto appaiono predestinati a ripercorrere le vicende dei leggendari amanti e, come loro, ad andare incontro alla medesima sorte di sventura, in un finale mozzafiato.


In ultima sintesi “L’amaro caso della Baronessa di Carini” si rivelò uno sceneggiato di rara fattura ed equilibrio, convincente e realistico al punto giusto, caratterizzato da un’avvincente suspense, un ritmo serrato, una travolgente storia d’amore e una rapida puntata nel regno del sovrannaturale che non guasta mai e che qui trova appropriata giustificazione nel continuo richiamo alla leggenda. Ineccepibile l’ambientazione storica e il ricco carnet degli attori tra cui merita un monito speciale il grande Paolo Stoppa, affiancato ai già citati Ugo Pagliai, Adolfo Celi, una giovanissima Enrica Bonaccorti, e la francese Janet Ågren.

Molto ricca la fotografia a colori, che gli italiani all’epoca non poterono apprezzare perché nel 1975 la trasmissione policromatica non era ancora in vigore, ottima la cura con cui furono meticolosamente ricostruite e presentate l’ambientazione arcaica e feudale della Trinacria e i meravigliosi costumi d’epoca.

Le riprese furono infatti effettuate a Frascati, a Nerola, in alcune grotte sul lago di Albano e in Sicilia, lo sceneggiato, in quattro puntate, andò in onda il 23 novembre del 1975, preceduto da un breve documentario esplicativo che introduceva l’antica storia del Borgo di Carini e la leggenda della Baronessa, spiegando di fatto il senso della ballata in siciliano stretto, che di lì a poco, con la voce di Gigi Proietti, avrebbe dato il via alla serie costituendo la sigla del programma.

Definito dai suoi stessi autori come “romanzo popolare” lo sceneggiato, come già detto, sancì l’apice massimo della produzione RAI fondendo sapientemente il sovrannaturale con il fantastico, il romanzo d’appendice con il filone gotico, la leggenda con la storia, e la cronaca di costume con il giallo e il mistero.

Riuscitissima operazione commerciale che forse, in qualche maniera, spianò la strada al successivo prolificare del genere Mistery, che ancora non accenna a conoscere soste od arresti nella sua irrefrenabile corsa verso l’affiliazione del grande pubblico, riuscendo per una volta a coniugare gli interessi dei mezzi televisi con quelli della letteratura.

All’ Amaro caso della Baronessa di Carini vanno voi ricondotti altri validissimi episodi letterari che ne furono in qualche modo ispiratori: Malombra di Antonio Fogazzaro, e Il Castello di Trezza di Giovanni Verga, di cui parleremo nel prossimo articolo.

Sabina Marchesi

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