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Il gioco di prestigio di Henry James

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Il gioco di Prestigio di Henry James

Non erano mai importuni, eppure non si mostravano mai sbadati. Tutta la mia sorveglianza consisteva in realtà nell’osservarli mentre si divertivano immensamente senza di me, e questo spettacolo, allestito da loro con cura particolare, mi coinvolgeva nella parte di ammiratrice appassionata. Mi muovevo in un mondo di loro invenzione… né loro avevano occasione di entrare nel mio; sicché il mio tempo era impiegato solo nel rappresentare, per loro, qualche persona o cosa straordinaria che il gioco momentaneamente richiedeva; il che, grazie al mio ruolo superiore e onorevole, rappresentava una sinecura felice e molto rispettabile. Non ricordo che cosa fossi in quell’occasione; ricordo soltanto ch’ero qualcosa di molto importante e molto calmo, e che Flora stava recitando con grande impegno. Eravamo sulle rive del laghetto e, poiché avevamo cominciato da poco a studiare geografia, il laghetto era il mare d’Azof.

Che pace e che tranquillità che emananano da queste righe, evocatrici di bucoliche attività in un contesto quotidiano, l’Istitutrice che gioca compostamente coi bambini nella dimora estiva di campagna. Bambini educati, contenuti, controllati, una giovane educatrice bendisposta, solare, ma contegnosa, come ben si addice a una damigella dell’epoca vittoriana.


Tutto quadra in questa immagine, ma qualcosa di terribilmente tragico sta per verificarsi.

Ma osserviamo meglio, chi ci racconta di questa bucolica scena di fine estate? L’Istitutrice. Chi ci mostrerà poi gli eventi misteriosi e spaventevoli che stanno per scatenarsi? Sempre l’istitutrice. Chi insinuerà nelle nostre menti che quegli angioletti, quegli adorabili bambini, non siano poi tanto innocenti? Chi ingenera il dubbio che una diabolica macchinazione sia in atto contro di lei, ordita proprio con la complicità e l’onnivenza di quelle tenere creature, così semplici e innocenti? L’Istitutrice.


Ed ecco che Henry James ha rovesciato la prospettiva.

Presto noi ascolteremo questa pudibonda fanciulla, investita della responsabilità di educare quelle giovani menti, con sospetto, con astio, con rancore. Soppeseremo le sue parole, valuteremo le sue azioni, giudicheremo il suo operato. E da vittima la trasformeremo in carnefice.

Ma attenzione, niente e nessuno hanno mai detto questo, nemmeno tra le righe, anche a ben guardare, James non si pronuncia mai, non prende posizione, non condanna e non assolve.

Che cosa è successo? Nessuno lo sa. Ma questa favola nera è in assoluto il più bel romanzo giallo che sia mai stato scritto. Un capolavoro, un raffinato gioco di prestigio, un muoversi di veli, rivelazioni annunciate, e foschi presagi, mai interamente svelati dall’autore.

Ma vediamo come, anche in pochissime righe, James riesca a giocare con le parole, prospettandoci la realtà sotto la visuale distorta della protagonista. Diciamo che intanto, giusto per iniziare, non sappiamo chi siano queste persone, ma intuiamo solamente, e più che immaginare crediamo di vedere, il tipico quadretto agreste dell’istitutrice di buona famiglia inglese, che gioca con dei rampolli vittoriani, compostamente e con il tipico self control britannico.

Innanzitutto le descrizioni sono troppo da manuale, quella che vediamo non è la reale scena domestica, ma la parafrasi della stessa, un’imitazione, una riproduzione quasi perfetta, ma falsata.

Le affermazioni sono tutte imperniate su negazioni, essi non erano, non facevano, non sembravano, non si mostravano, non ricordavano. La compostezza della scena, come già visto, totalmente artefatta, è guastata dalle ricorrenti espressioni enfatiche, sopra le righe, esaltate, utilizzate dall’istitutrice, che stride tremendamente con la sua presunta “pruderie”. Molto straordinario, assai rispettabile, si divertivano tremendamente, grande impegno, mai sbadati, mai importuni, ruolo superiore, persona straordinaria. Sono iperboli, fortemente volute e motivate. E poi d’altro canto abbiamo il ridimensionamento, il ruolo dell’istitutrice si ripiega su se stesso, ella sminuisce la sua stessa figura, quando parla di se stessa dice, ricordo soltanto, la mia sorveglianza consisteva solo in, senza di me, il mio tempo era impiegato solo nel … Insomma ecco che l’intera scena ci viene dipinta con i colori che si vuole, colei che narra ci sta manovrando perché noi si possa vedere solo quello che lei è disposta a mostrarci.

Anche qui come in Flaubert la descrizione oggettiva di un determinato momento serve per mostrare in realtà quello che è il mondo interiore, attraverso l’uso delle immagini e dei vocaboli che si è deciso di usare, e la loro giustapposta contrapposizione.

Infine ecco che la vera natura dell’istitutrice affiora proprio in queste forzature descrittive, l’enfasi utilizzata per ridurre e sminuire il suo ruolo, la sua figura, quasi un volersi mettere forzatamente in disparte, che sortisce però esattamente l’aspetto opposto.

Il falso coinvolgimento con i bambini, lei gioca, ammaestra, partecipa alle loro finzioni, ma in realtà è evidente che appartengono a due mondi paralleli, sono separati da un abisso, troppo consapevole del suo ruolo ella non scioglie le trecce per scatenarsi con loro, non solleva le gonne per compenetrarsi nella recitazione, non si cala nel ruolo a lei assegnato, ma al massimo finge di compiacerli con magnanimità, dall’alto della sua posizione di insegnante, in un eccesso di compostezza e di esibita dignità.

Sono tutte finzioni, parafrasi, iperbole, rappresentazioni sceniche, di una realtà, che come in Madame Bovary, non è quale la si vorrebbe, anzi tutt’altro.

Per chi non lo sapesse, il Giro di Vite è un racconto di fantasmi, e la vite simboleggia appunto quel fissarsi, girando e compenentrando, della mente umana su determinati aspetti della realtà, fino a sviluppare una fissazione, una mania, una distorta visione della vita. In realtà è anche questo un fine esempio di narrazione psicologica, introspettiva.

Una protagonista che sembra incapace di focalizzare la realtà, ma che ce ne rende una possibile interpretazione, così come ci si aspetterebbe che fosse, ma una rappresentazione falsata, distorta, irreale, tanto più credibile perché scontata. E’ tutto troppo perfetto, irreale ed artefatto per essere vero.

Non è un’istitutrice che gioca con i bambini nella pacifica campagna inglese, è solo la rappresentazione scenica di un’istitutrice che gioca con i bambini. Una finzione.

Nella sua incapacità di cogliere i particolari, per soffermarsi poi troppo su dettagli, nella sua riottosità a focalizzare, fingendo di dimenticare, di non sapere, di non aver visto, ci riporta una figura quasi paranoica, di questa ideale istitutrice, che ben lungi dall’essere Mary Poppins, incarna ai nostri occhi inquietanti visioni e percezioni oscure.

Più che sapere, sentiamo, che c’è davvero qualcosa che non va.

Troppo presa dal suo ruolo, convinta di recitare una parte, tesa fino allo spasimo a fornirci di sé una rappresentazione idilliaca, la protagonista mina da sola le sue stesse affermazioni, sminuendone il valore, ed alterando la sua credibilità di narratrice. Anche qui gioca l’ambivalenza tra la finzione scenica e la realtà.

L’insistenza con cui continua a darci un’immagine di sé controllata e distante evoca in noi il suo esatto contrario, suggerendo la sua incapacità di distinguere il mito dall’accadimento.

E’ la prima volta in assoluto che un autore usa una narrazione volutamente inaffidabile per suggerire una pista al lettore, per instradarlo sulla soluzione del mistero, e come nella migliore tradizione del romanzo giallo, portarlo all’identificazione del colpevole.

Si anticipa così il Nuovo Romanticismo e la rivoluzione metaletteraria che saranno poi proprie dei canoni di tutta la letteratura moderna.

E il gioco riesce così bene che di questa millantata istitutrice, ahimè, nessuno ricorderà mai il nome.

Sabina Marchesi

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