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2010
15
Set
Convenzione internazionale contro le cluster bombs


«This treaty
sets the highest standard to date for victim assistance
and will make a
real difference to affected people and communities around the world»
(Branislav Kapetanovic, vittima di
munizioni cluster)
Introduzione
Alcuni numeri[1]:
36, i paesi ancora fortemente inquinati dai frutti delle cluster bombs,
o bombe a grappolo; 15, i paesi che hanno fatto uso fino ad oggi di questi
diabolici ordigni; 34, i paesi produttori, e tra questi figura l'Italia; 85,
quelli che ne detengono ancora importanti stock, e ancora il nostro paese
risulta tra i primi.
Altri numeri[2]:
108, i paesi che hanno firmato la Convenzione sulle munizioni a grappolo[3];
39, quelli che l'hanno ratificata permettendole di entrare in vigore lo scorso
1° agosto, e purtroppo l'Italia non è tra questi.
Ancora: circa 440
milioni, il numero di bombe utilizzate negli ultimi 50 anni nei diversi scenari
di conflitto (da ultimo in Kossovo, Afghanistan, Iraq e Libano) e, di queste,
circa 100 milioni giacciono a terra ancora inesplose.
Da ultimo: 5%, la
percentuale di proiettili che potrebbero rimanere inesplosi (e, dunque,
pericolosi per le popolazioni civili al termine delle ostilità) secondo quanto
dichiarato dai fabbricanti; fino al 55%, secondo gli studi condotti da diverse
ong[4];
più di un miliardo, le munizioni stoccate nei vari depositi in giro per il
mondo.
Decine di migliaia
i feriti, ogni anno, di guerre mai concluse.
La questione aperta
Le bombe a grappolo,
o cluster bombs, o armi a sub-munizioni, appartengono a una tipologia di
armamenti particolarmente infida che ha fatto la sua apparizione sulla scena
durante la II guerra mondiale grazie a Germania e Unione Sovietica. A seguire,
poi, sono state perfezionate da molti a partire dagli anni 50 del XX secolo.
Il veicolo o
contenitore principale, che solitamente è un fusto missilistico tradizionale,
porta al suo interno uno svariato numero di proiettili esplosivi, le
sub-munizioni (da qualche decina fino a 2.000!); una volta che il mezzo
principale viene lanciato da un apparato di artiglieria o sganciato da un
aeroplano o da un elicottero, questo si apre liberando il suo contenuto di
sub-munizioni esplosive che si disseminano su una vasta superficie (nell'ordine
della decina di kmq) e vanno a colpire gli obiettivi prefissati (persone,
veicoli, strutture). O almeno questo è l'auspicio di chi ne fa uso, dal momento
che, essendo in caduta libera, non si può garantire in maniera assoluta il
raggiungimento del bersaglio. Anche quelle di concezione più avanzata, dotate
di sistemi di guida a distanza, risentono comunque delle condizioni
meteorologiche e di altri fattori ambientali al momento del lancio.
Vi sono diversi
tipi di bombe cluster: anti-persona, solitamente piccoli apparati metallici a
frammentazione contenenti esplosivo; anti-carro, ordigni esplosivi guidati da
sensori per dirigersi verso i mezzi corazzati presenti nell'area e colpirli con
testate perforanti o piccole cariche cave che esplodono al contatto con la
superficie solida, perforandola; miste, capaci di proiettare frammenti, perforare
corazze o avere effetti incendiari.
Ad oggi, le
autorità internazionali hanno censito circa 210 differenti modelli di armi a
sub-munizioni prodotti da 34 paesi. Gli arsenali delle forze armate di ben 85
nazioni accolgono ancora milioni di cluster con miliardi di sub-munizioni.
Nelle intenzioni
dei costruttori e degli utilizzatori, i proiettili dovrebbero esplodere al
contatto con il suolo (o con il bersaglio) per causare il maggior danno
possibile sull'area sottoposta al bombardamento, ma spesso ciò non accade e i
territori rimangono inquinati da ordigni inesplosi anche per decenni dopo il
termine delle ostilità, causando danni irreparabili alla ripresa della vita del
paese[5].
La storia recente
ha mostrato che un enorme quantità di munizioni non esplodono al momento
dell'impatto: stime condotte dal CICR[6]
conducono a ritenere che il tasso di non-funzionamento si attesti tra il 10% e
il 40% del totale. Da ciò consegue che l'impiego su vasta scala di queste armi
porti ad avere interi paesi letteralmente infestati da milioni di ordigni
inesplosi.
Le sub-munizioni a
terra spesso, poi, esplodono quando vengono manipolate o urtate
accidentalmente, costituendo così un grave pericolo per le popolazioni civili
che cercano di tornare alla normalità nonché per le varie attività di
ricostruzione conseguenti ai conflitti: anche il tradizionale lavoro nei campi
viene pregiudicato per anni e i danni sono paragonabili a quelli causati dalle
mine anti-uomo.
La soluzione
proposta
Proprio per ovviare
alle atroci e continue sofferenze causate da questi ordigni, i paesi della
comunità internazionale, riunitisi a Dublino nel maggio 2008, hanno negoziato e
adottato la Convenzione sulle armi a sub-munizioni che, sotto l'egida delle
Nazioni Unite e della Croce Rossa Internazionale, va a costituire un ulteriore
ed importante tassello al sistema del diritto internazionale umanitario[7]
(DIU), sempre più rilevante in un periodo di "pace" combattuta quale quello che
continuiamo a vivere. Firmata nel dicembre dello stesso anno a Oslo (ed ecco
perché il trattato è altrimenti noto come Convenzione di Oslo) da 108 paesi[8],
è entrata in vigore il 1° agosto di quest'anno in seguito al deposito del
trentesimo strumento di ratifica (ma ad oggi sono 38 gli Stati parte a questo
strumento di diritto internazionale).
I 23 articoli che
compongono la Convenzione si propongono di offrire ai paesi aderenti un quadro
normativo organico che impedisca per l'avvenire ogni ulteriore utilizzo delle
armi a sub-munizioni e al contempo impegni tutti alla soluzione dei problemi di
natura umanitaria associati a queste.
Di grande
importanza, nel preambolo dello strumento internazionale, la prima affermazione
dei firmatari che si sofferma sulla profonda preoccupazione per il fatto che le
popolazioni civili continuano ad essere le vittime più duramente toccate dai
conflitti armati moderni e, in piena sintonia e coerenza, l'ultimo paragrafo
che richiama i principi e le regole del diritto internazionale umanitario[9]
relativamente ai limiti che le parti ad un conflitto devono comunque osservare
nella scelta dei metodi e mezzi di guerra e alla distinzione tra popolazione
civile e combattenti, così come tra beni di carattere civile e obiettivi
militari, nonché il richiamo alla protezione generale contro i pericoli
risultanti dalle operazioni militari per i civili.
I contenuti più
rilevanti della Convenzione si ritrovano nei primi nove articoli che dispongono
precisi impegni per gli Stati parte, i restanti essendo dedicati alle
cosiddette norme di funzionamento del sistema posto in essere dal trattato.
Il primo articolo, in
maniera originale, contiene la descrizione delle obbligazioni generali e del
campo di applicazione del trattato in maniera negativa stabilendo che ciascun
paese parte s'impegna a «non più mai, in nessuna circostanza»[10]:
a.
impiegare
armi a sub-munizioni;
b.
progettare,
produrre, acquistare in qualsiasi altro modo, stoccare, conservare o trasferire
a chiunque, direttamente o indirettamente, armi a sub-munizioni;
c.
assistere,
incoraggiare o incitare chiunque a impegnarsi in una qualsiasi delle attività
vietate dalla Convenzione.
Gli stessi obblighi
si applicano, mutatis mutandis, alle piccole bombe esplosive concepite
per essere disperse o liberate da un apparato fissato ad un aeromobile, mentre
non trovano applicazione alle mine (che sono oggetto di un accordo specifico[11]).
All'art. 2, ove si
propongono le definizioni utili all'applicazione della Convenzione, è da
rilevare l'amplio spettro di danni che si considera abbiano come conseguenza
"vittime di armi da sub-munizioni": per cui, oltre alla morte e ai pregiudizi
fisici e psicologici, sono citati pure la perdita materiale, l'emarginazione
sociale e l'attentato sostanziale al godimento dei propri diritti. Inoltre, si
considerano vittime, le persone direttamente toccate dalle armi, così come le
loro famiglie e le loro comunità: quasi a voler significare che il danno
portato dall'uso di questo tipo di ordigni vada a ledere un bene comune
condiviso quale quello della socialità.
Si dà poi una
precisa definizione di "armi a sub-munizioni", vale a dire una «munizione
classica concepita per disperdere o liberare delle sub-munizioni esplosive di
cui ciascuna pesa meno di 20 chilogrammi». Tali sub-munizioni, non guidate,
sono congegnate per esplodere prima dell'impatto, al momento dell'impatto o
dopo l'impatto. Seguono, a contrariis, delle esclusioni dalla precedente
categoria, ad esempio non rientrano nella definizione generale quelle che
contengono meno di dieci sub-munizioni le quali hanno un peso unitario maggiore
di 4 chilogrammi.
A seguire vengono
offerte le definizioni di "sub-munizione esplosiva", "arma a sub-munizioni
dispersa", "sub-munizione non esplosa", "arma a sub-munizione abbandonata",
"resti di armi a sub-munizioni", "trasferimento", "meccanismo di
autodistruzione", "autodisattivazione", "zona contaminata", "mina", "piccola
bomba esplosiva", "dispersore", "piccola bomba esplosiva non esplosa", tutte
funzionali all'operatività di quanto gli Stati parte si impegnano a fare.
L'art. 3, infatti,
consacra poi l'impegno degli Stati a distruggere tutti gli stock di bombe a grappolo
posti sotto la propria giurisdizione entro il termine di 8 anni dall'entrata in
vigore della Convenzione (salva la possibilità di chiedere delle proroghe
motivate all'Assemblea degli Stati parte). Gli Stati possono mantenere piccole
riserve unicamente a fini didattici per i tecnici artificieri, ma ne devono
comunicare l'entità e la localizzazione.
La norma
successiva, l'art. 4, prevede l'impegno alla bonifica delle zone contaminate
dagli ordigni, alla distruzione dei resti esistenti sui territori interessati e
all'avvio di programmi di formazione e sensibilizzazione per ridurre al minimo i
rischi per l'incolumità delle popolazioni civili coinvolte. Questo nel termine
massimo di 10 anni dall'entrata in vigore della Convenzione.
All'art. 5 sono
invece dettate le modalità di assistenza da offrire alle vittime che, in
conformità al diritto internazionale umanitario e al diritto internazionale dei
diritti dell'uomo applicabili, dovrà tenere in considerazione l'età e il genere
delle persone e prevedere cure mediche, riadattamento e sostegno psicologico,
inserimento sociale ed economico. Gli Stati sono tenuti inoltre a elaborare
precisi piani di intervento ed a stanziare risorse per finanziarli: e questa è
la prima volta che uno strumento convenzionale di diritto internazionale
umanitario prevede delle disposizioni così precise sull'assistenza alle
vittime.
Il successivo art.
6 sottolinea e rafforza il ruolo delle azioni internazionali di cooperazione e
assistenza arrivando a sancire un vero e proprio "diritto a cercare e ricevere"
aiuto da parte degli altri partner. E, specularmente, al par. 2 si prevede una
sorta di "dovere" dei paesi in grado di farlo, di fornire assistenza tecnica,
materiale e finanziaria per le differenti attività legate all'applicazione
della Convenzione.
L'art. 7 indica
quali misure dovranno porre in essere gli Stati parte al fine di garantire la trasparenza
nell'esecuzione delle obbligazioni assunte in virtù del trattato, sia nei
confronti degli altri paesi che verso gli organi delle Nazioni Unite: in
pratica, si impone la presentazione di un rapporto nel quale vengano indicati i
tempi e le modalità per avviare le ulteriori attività previste, entro 6 mesi
dall'entrata in vigore della Convenzione e a cadenza annuale per relazionare
sui progressi conseguiti.
L'art. 8 offre quindi
uno strumento di aiuto per eventuali chiarimenti dovessero palesarsi necessari
tra i paesi parte su questioni relative il rispetto delle disposizioni della
Convenzione, in pratica una sorta di consulta inter-governativa che si possa
attivare con minori formalità ed in tempi rapidi.
L'art. 9, da
ultimo, impegna le parti ad adottare ogni provvedimento legislativo,
regolamentare o di altri tipo che si ritenga appropriato per porre in opera la
Convenzione, comprendendo eventuali sanzioni penali per prevenire e reprimere
le attività vietate.
Come anticipato, le
restanti norme dettano quell'ulteriore serie di corollari destinati al
funzionamento del sistema convenzionale (regolamento delle controversie, attività
dell'assemblea degli Stati parte, costi di funzionamento, ecc.).
Le prospettive
future
Una volta a regime,
la Convenzione permetterà di evitare molte sofferenze umane dal momento che i
milioni di bombe a grappolo ancora esistenti negli arsenali militari del mondo verranno
distrutti e le vittime, persone e comunità, saranno coinvolte nei programmi di
assistenza e recupero sostenuti a livello internazionale.
Per di più,
considerando il quadro complessivo dato dalla Convenzione di Oslo del 2008,
questa sulle bombe a grappolo, da quella di Ottawa del 1997, sulle mine
anti-uomo, e dal Protocollo del 2003, relativo ai resti esplosivi di guerra,
possiamo riconoscere che la comunità internazionale si è dotata di uno
strumentario efficace per sconfiggere quelle che vengono definite "armi che non
smettono mai d'uccidere" e per operare con impegno alla ricostruzione delle
condizioni necessarie per una pace reale in quelle regioni del pianeta per
troppo tempo martoriate dalla guerra.
Un aspetto molto
delicato riguarda la partecipazione di Stati parte alla Convenzione ad
operazioni militari congiunte con forze armate di paesi non aderenti (caso
emblematico che tocca da vicino l'Italia, che ha firmato ma non ancora
ratificato la Convenzione, e che ha proprie truppe schierate accanto agli Stati
Uniti, che hanno sempre apertamente osteggiato la campagna contro le bombe
cluster): il trattato, infatti, non impedisce simili cooperazioni militari,
tuttavia, salvo gli obblighi che permangono in capo agli Stati parte di non
impiegare in alcun modo ordigni vietati, questi dovrebbero al contempo
impegnarsi per promuovere l'adesione alla Convenzione e scoraggiare l'utilizzo
delle armi.
Dunque, via libera
alla partecipazione ad operazioni congiunte ma divieto assoluto di utilizzare,
stoccare o trasferire bombe a sub-munizioni. Palese risulterebbe il conflitto
tra le obbligazioni poste dai differenti strumenti giusinternazionalistici: il
Trattato Atlantico (per le operazioni in ambito Nato, per esempio) e la
Convenzione di Oslo. E a poco servirebbe il tentativo di conciliare il
conflitto di norme invocando principi classici quali «pacta sunt servanda»
o ancora «lex specialis posterior derogat generali priori»: in questo
caso, purtroppo, l'unico principio a valere sarebbe quello altrettanto classico
ma meno giuridico «ubi maior, minor cessat».
Comunque, a frenare
gli entusiasmi italici per la ratifica della Convenzione pare non sia solo la
fedeltà all'alleato d'oltreoceano e il timore di non poter più dimostrare la
nostra predisposizione al coinvolgimento in operazioni internazionali: infatti,
verificando i bilanci delle aziende nostrane impegnate nel settore, risulta
che, in caso di ratifica, il mancato fatturato per gli obblighi conseguenti
potrebbe raggiungere i 160 milioni di euro all'anno. Veramente un duro colpo!
E sappiamo bene che,
di fronte ai "valori economici", tutti gli altri "valori" passano in secondo
piano: anche la "vita umana" e la "pace".
Conclusione
Battute a parte, e
al di là dei tempi di ratifica dei diversi paesi (Italia compresa) o del
disinteresse palese di grandi potenze (Stati Uniti, Russia e Cina solo per
citarne alcune), riteniamo che la Convenzione sulle bombe a grappolo potrà
avere un forte impatto sociale grazie al ruolo dei media e della società civile
che stigmatizzeranno sempre più queste armi e i paesi che continueranno a
produrle, venderle e utilizzarle, sottolineandone il comportamento criminale
nei confronti dell'intera comunità umana.
Speriamo che questo
renda più difficile, e magari un domani impossibile, il loro impiego e, di
conseguenza, un passo naturale l'adesione alla Convenzione.
[1] Cfr. www.stopclustermunitions.org, sito ufficiale
della Cluster Munition Coalition.
[2] Cfr.
www.clusterconvention.org.
[3] Per il testo della
Convenzione si veda
www.clusterconvention.org/pages/pages_ii/iia_textenglish.html.
[4] Per tutte si veda
www.handicap-international.org.
[5] Si veda il caso dell'Afghanistan
dove si sta tuttora cercando di bonificare il territorio dalle PFM1, in gergo
chiamate "pappagalli verdi", eredità delle guerra russo-afghana degli anni 80,
cfr. Strada G., Pappagalli verdi, Milano, 2000.
[6] Comitato
Internazionale della Croce Rossa, cfr. www.icrc.org.
[7] Cfr. tra gli altri
Monari A., Il Diritto nella Guerra, in KultUnderground, n.1,
2006.
[8] Per gli aggiornamenti
relativi ai paesi aderenti alla Convenzione si rimanda ai siti sopra citati, www.clusterconvention.org o www.stopclustermunitions.org o treaties.un.org.
[9] Per il sistema delle
Convenzioni di Ginevra si veda www.icrc.org/web/fre/sitefre0.nsf/html/genevaconventions.
[10] Nei testi in versione
ufficiale si trovano le seguenti dizioni: «never under any circumstances»
(in inglese), «ne jamais, en aucune circonstance» (in francese), «nunca,
y bajo ninguna circunstancia» (in spagnolo). Si omettono le versioni,
parimenti ufficiali, in russo, cinese e arabo.
[11] Per il testo del
Trattato di Ottawa sull'interdizione dell'uso delle mine anti-uomo, firmato il
18.09.1997 ed entrato in vigore il 01.03.1999, si veda www.cicr.org/dih.nsf/INTRO/580 o
www.campagnamine.org.
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:: Davide Caocci
Davide Caocci, nato a Milano nel 1972, ha studiato Diritto ed Economia tra Italia, Francia e Argentina. Esperto in politiche di cooperazione internazionale e sviluppo locale, lavora tra Europa, America latina e Africa, trovando anche il tempo di offrire corsi in università italiane e straniere e scrivere articoli sui fenomeni legati alla globalizzazione. “Semel Scout Semper Scout”.
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