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Somewhere

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Una Ferrari nera gira in una pista circolare. Dentro e fuori dall’inquadratura. La sequenza di apertura di Somewhere mostra subito le coordinate spazio-temporali ed esistenziali della storia che verrà narrata. Un girare a vuoto, quello del protagonista, che riflette la sua voragine interiore, in cui tutto sembra cadere verso il basso, senza lasciare traccia. La vita diventa artificio e finzione, ripetizione dei soliti eccessi che finiscono per non avere più nessuno scopo. L’eccitazione sessuale è svanita da un pezzo (i tristi spettacolini erotici fanno venire sonno, così come una donna con le gambe aperte che vuole essere leccata), l’alcol è solo un modo per riempire il tempo, la fama serve per continuare a vivere una vita agiata e allo stesso tempo monotona, il sogno del successo diventa una gabbia dalla quale sembra impossibile fuggire.
E’ un film di Sofia Coppola ma pare di trovarsi tra le pagine di un libro di Bret Easton Ellis, Johnny Marco potrebbe essere un altro sosia di Victor Ward, il protagonista di Galmourama. Lo stesso spaesamento, la stessa stupida incredulità di chi non sa più nemmeno riconoscersi allo specchio, l’alienazione portata da una vita finta che si spaccia per vera, l’esistenza trasformata in un perenne set cinematografico, in cui i confini tra uomo e attore finiscono per scomparire, come la propria personalità, il proprio io.
E come Ellis la Coppola adotta la stessa complessità di linguaggio. Anche se apparentemente lineare e di semplice lettura Somewhere possiede in molte sequenze un senso più profondo, portatore di una inquietudine e di un malessere che si espande lentamente in tutto il film. Le immagini di Johnny allo specchio, truccato da vecchio, l’ansia di essere seguito, i messaggi anonimi sul cellulare, sembrano tutti elementi che tendono a sgretolare, a minacciare l’apparente tranquillità di chi, possedendo tutto, non dovrebbe avere nessun tipo di problema.
Accompagnandoci nel quotidiano squallore di una vita priva di qualsiasi senso e significato, se non quello del vagare, la Coppola riflette sulla falsità dello star-system, sull’idiozia dell’adulazione di attori e attrici, veramente agghiacciante la parentesi della presentazione del film di Johnny in Italia, in cui lo spaccato della televisione italiana, proprio perché reale, è ancora più pauroso e mostra quanto la perdita di sé stessi sia forse la forma di povertà più pura, soprattutto quando è di una persona ricca e famosa.
Il rapporto tra Johnny e la figlia regala allo spettatore gli unici momenti in cui alcune emozioni riescono a scorrere, ma anche qui si ha una sensazione di freddezza, di distacco (a differenza dell’incredibile coinvolgimento emotivo che si provava durante la visione di Lost in Traslation), in alcune sequenze però qualcosa di reale sembra accadere, come quando i due si trovano sotto l’acqua e mimano dei gesti o quando sono sdraiati vicino alla piscina dello Chateau Marmont e la Coppola, con un lentissimo zoom all’indietro, inquadra le loro rispettive solitudini.
Perché poi sempre di questo si tratta. Del vuoto e del silenzio, della solitudine e dell’amore e del bisogno che qualcosa di vero fiorisca dai nostri cuori.

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