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8 DONNE ½

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8 DONNE ½

Nel difficoltoso tentativo di proporre qualcosa di commestibile per quest’ultimo articolo stagionale3 (nonostante quest’anno pare ci sia un continuo nel periodo estivo con la visione di nuove pellicole in arrivo dagli States), mi sono accorto che un autore apparentemente inesistente sugli schermi cittadini abbia segnato l’inizio e la fine del mio ciclo cinematografico annuale (per me come l’anno scolastico, da settembre a giugno), iniziato con il festival di Venezia, e terminato recuperando un film in rassegna perso precedentemente (ma si è poi visto nelle sale reggiane-modenesi in un’accettabile programmazione che non fosse la serata isolata in qualche cinema di provincia?).
Sto parlando di
Peter Greenaway e di due suoi lavori: "Death of a Composer" e "8½ Women".
Quest’ultimo fa un chiaro riferimento all’opera felliniana (di cui il regista inglese è un estimatore), trasferendone una prima parte in Giappone, ed una seconda a Ginevra.
I protagonisti in questo caso sono una coppia di businessman, padre e figlio che si ritrovano uniti dopo la morte della consorte/madre. Il figlio decide, per consolare il padre e fargli accettare la scomparsa della moglie, di farlo uscire dalla piccola routine familiare che si era costruito nel corso degli anni, esplorando insieme le proprie passioni ed i propri desideri sessuali. La sontuosa villa ginevrina dove i due si rinchiudono si trasforma in un harem di otto concubine e mezzo (viene portata lì anche una donne asiatica su una sedia a rotelle), che incarnano le diverse personalità e fantasie dei due.
Partendo dal banale assunto che il cinema di Greenaway piace o non piace (non ci sono molte vie di mezzo), si deve in ogni caso riconoscere che rimane uno dei più originali esponenti del cinema europeo.
Quello che colpisce delle pellicole di Greenaway è la capacità di sbattere lo spettatore contro il muro dei propri giudizi morali. È un cinema che arriva, sia positivamente sia negativamente, dritto ai nervi, incorniciando situazioni "scomode" in quadri a tinte forti, con citazioni pittoriche a volte anche evidenti. Non si rimane sicuramente indifferenti a questi tipi di spettacoli, dagli amori cannibaleschi di "Il Cuoco, il Ladro……", all’infinito stupro di un "Baby of Macon", o alle operazioni chirurgiche di uno "Zoo di Venere". Anche l’opera presente all’ultimo festival di Venezia, "Morte di un compositore" ("Death of a Composer" ….quando mai la si riuscirà e vedere in una sala cinematografica?….), storia di un delitto mai chiarito di un compositore gaucho argentino vissuto negli anni 30, rispetta questi principi: file di carcasse di animali macellati si mescolano ai corpi nudi di uomini e donne, mogli trattate alla stregua di animali da monta, ecc.. Questo progetto filmico è in realtà la ripresa di uno spettacolo costruito a teatro ed integrato visivamente con l’apporto di finestre cinematografiche, tecnica utilizzata anche nel precedente "I racconti del cuscino" e in qualche maniera anche nell’ultimo "8 Donne ½".
Ma, a differenza dei precedenti film di Greenaway, proprio con "8 Donne ½" ci si trova come defraudati di queste emozioni dure. Il film non esce da quella linea che molti anni prima in maniera più onirica e visionaria Fellini aveva tracciato, e a parte un non ben chiarito possibile rapporto incestuoso fra padre e figlio, la pellicola non da particolari emozioni, il tutto risulta essere un deja vu un po’ noioso.
Tre possibili spiegazioni:
  • il mio senso della morale in questi anni si è azzerato, per cui non mi stupiscono più di tanto le immagini che anche uno come Greenaway può sottoporre (probabile);
  • ci si abitua anche ad un certo cinema per cui non si riesce più a colpire utilizzando solite tecniche e situazioni inconsuete. (Probabilmente nel caso di Greenaway stupirebbe più in una storia semplice "moralmente corretta" come nel caso dell’ultimo "Una storia vera" di Lynch) (possibile);
  • si citano troppo spesso altri autori in maniera evidente e quasi fedele, utilizzando idee altrui senza rielaborane il messaggio (ovvio);
    Esempio: ormai dai tempi di "Tokyo Ga" di Wenders, la formula cinematografica Giappone =
    Pachinko2 è banale, e Greenaway dimostra di rimanere bloccato in questo teorema, ruotando la prima parte giapponese del film intorno a questo business elettronico.
    E ci deve essere probabilmente una sala di Pachinko a Tokyo in cui è già posizionata una telecamera, in modo che i registi europei non debbano ingegnarsi troppo a studiare la giusta inquadratura.


  • Andrea Leonardi

    2
    Il Pachinko è quella specie di flipperone verticale con delle sferette che terminano la loro corsa in cavità con valori di punteggio diversi, una sorta di slot-machine giapponese.

    3
    Non è vero. Leo è gradito ospite del festival "anteprimaannozero" diretto da Ghezzi e ci aspettano ancora ottimi articoli.

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