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Il miglio verde

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Il miglio verde

Il cinema americano (o meglio made in Usa, perché esiste anche, ed è stato molto importante negli anni 60, un cinema latino-americano, che sta forse riemergendo in questi ultimi anni) riesce ad esprimersi ancora efficacemente all’interno di formule e moduli classici, strutture tradizionali e solide, che lasciano però aperte vie laterali (l’horror, la fantascienza) da cui far entrare umori molto vitali. Spesso poi si nutre di un retroterra culturale, fatto anche di letteratura popolare, in grado di comunicare emozioni e passioni.
E’ il caso di numerosi romanzi della produzione sterminata di Stephen King (non sempre dello stesso livello qualitativo), da uno dei quali, Il miglio verde, è tratto l’omonimo film di Frank Darabont, che dal romanzo ha ricavato sicuramente la sua linfa vitale.
Perché si tratta di un lungo spettacolo (più di tre ore) avvincente, che cresce e costruisce con gradualità il suo scenario – anni 30, depressione, sud degli Stati Uniti, il braccio della morte di un carcere (il miglio verde del titolo), gli uomini che aspettano lì di morire e quelli che ne custodiscono gli ultimi giorni cercando di rispettarne la dignità umana. Lentamente, Stephen King, (il vero autore che sta dietro il film) inserisce nella storia, oltreché alcuni momenti davvero di orrore (la sedia elettrica), l’elemento del soprannaturale, di cui è portatore un gigante nero piovuto quasi dal cielo.
La sua è una figura dal percorso quasi "cristologico", capace di togliere il male da dentro gli altri, di ridare la vita, accollandosi su di sé il male degli altri. Ma questo male è così grande nel mondo che non riesce più a sopportarlo ("Mi trafigge la testa come pezzi di vetro"), al punto di preferire la morte, chiedendo però come ultimo desiderio quello di vivere un momento in quel paradiso (artificiale? forse, ma dov’è quello reale?) che il cinema rappresenta anche per lui. E così può assistere al magico e leggiadro movimento di Fred Astaire e Ginger Rogers, che cantano "Heaven, I’m in heaven".
Il Male è un tema sempre molto presente nella cultura americana, in tanti l’hanno narrato e cantato: il male che cresce dentro in maniera inspiegabile, il male "armato" dal feroce contesto esterno, la banca che ti porta via la casa, il lavoro che non si trova, nel film la grande depressione. Bruce Springsteen, in uno dei suoi dischi più personali e struggenti, Nebraska, riempie di questi umori dolenti tutte le sue canzoni.
Nel film c’è in più un elemento di redenzione, il passaggio di questo "miracolo di Dio" che non può non lasciare dei segni dietro di sé: i carcerieri – tra cui un Tom Hanks sempre più simile a Jimmy Stewart, come solido eroe-anti-eroe americano – non riescono più a svolgere il loro compito e decidono di abbandonare il braccio della morte. Ma è proprio Tom Hanks, a cui il gigante ha "trasmesso" il proprio flusso vitale, ad essere in qualche modo condannato a sopravvivere agli altri e ad assistere a tutto il male del mondo.

Paolo Baldi

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