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La ”Casa della Vita” Veneziana

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La "Casa della Vita" Veneziana
ora "Spoon River" di Primo Levi



Era una mattina di novembre del 1984: Primo Levi, l’autore di Se questo è un uomo, si recò alla direzione della Banca Commerciale Italiana in Piazza della Scala a Milano e qui consegnò personalmente tre fogli scritti a macchina e senza correzioni. Un anno e mezzo dopo, l’11 aprile 1987, Levi morì, di sabato, proprio come i giusti. Oggi quel piccolo inedito, sotto forma di Premessa, apre l’opera in due tomi che è stata presentata lo scorso 25 ottobre al Cenacolo palladiano della Fondazione Giorgio Cini, in occasione del Premio Raffaele Mattioli, intitolata La comunità ebraica di Venezia e il suo antico cimitero (edizioni Il Polifilo, 1.176 pagine, 230 mila lire).
Il saggio tratta del cimitero ebraico di Venezia e narra le storie di banchieri e di diseredati, di spagnoli e di tedeschi, di mercanti e di sapienti, che ora dormono nella "Casa della Vita".
Le parole dense e sentite di Levi ci conducono con delicatezza nel famoso Lido italiano e, anche a chi il cimitero non l’ha mai conosciuto né visitato, pare quasi di camminare tra le lapidi degli ebrei, lapidi che sussurrano malinconia, ma anche forza, superbia e sapienza. Inizia l’autore: "Il visitatore che non conosca l’intricata e gloriosa storia dell’ebraismo veneziano riceve dal cimitero ebraico di San Nicolò di Lido impressioni contrastanti di cura secolare e di altrettanto secolare incuria, di pietà e di preoccupazioni temporali, di fedeltà al rigore rituale e tradizionale ed insieme di consenso al gusto e alla moda del momento. Questo non avviene di solito nei cimiteri di villaggio, dove prevale la sensazione della omogeneità e della continuità. I motivi di questa singolarità sono parecchi, e fra loro strettamente connessi".
Come attesta la storia, la comunità veneziana si è sempre distinta per il suo carattere composto, comunità dove hanno convissuto ebrei di origine ashkenazita e sefardita, provenienti dalla Germania, dalla Polonia, , dalla Penisola iberica, dal Levante e dal resto dell’Italia, e del nucleo più antico le origini addirittura si perdono nel tempo. Che ne è di questa popolazione composita? Cosa ci dice di loro la certosa veneziana? Valichiamo il cancello e osserviamo il luogo prestando attenzione a colori ed odori: "Non si ha, o almeno non predomina, l’impressione del lutto. Il lutto è quello, recente e struggente, di chi ha perduto un familiare, una persona cara che ha frequentato, di cui ricorda le fattezze, le abitudini, la voce. Qui il lutto è remoto, travolto dai secoli: prevale la sensazione della pace, del riposo eterno che tutti i rituali promettono ai defunti… I più superbi, i più vistosi di questi sepolcri, custodiscono le spoglie, o più spesso soltanto le memorie, di ebrei, uomini e donne, che ebbero fama, ricchezza e successo: banchieri, armatore, donne di lettere e di intelletto d’amore, mercanti, medici, sapienti pii e laici; ed ora, come a Spoon River, tutti dormono qui, livellati dalla morte, all’ombra delle insegne, a volte ingenue, a volte pretenziose, a volte curiosamente profane, che essi stessi o i loro familiari hanno voluto. Su tutti si stende il mantello verde dei rampicanti, immagine della vita greggia, immemore, che sommerge il ricordo".
Il silenzioso luogo di sepoltura di San Biagio si fa dunque meravigliosamente la Spoon River di Primo Levi, lo specchio della secolare convivenza fra due civiltà sostanzialmente diverse, ma accomunate dal cosmopolitismo e dalla vocazione mercantile. Con gli occhi dell’autore leggiamo con emozione e reverenza le lapidi di Elia Levita, un grammatico, di Leone Modena, dotto maestro e predicatore ma anche giocatore d’azzardo, di Sara Sullam Copio, colta e bellissima, poetessa in italiano ed ebraico, che ci rivela con struggimento la vicenda del lungo idillio epistolare col gentiluomo genovese che si innamorò del suo ingegno e tentò invano di convertirla al cristianesimo.
Seguiamo la muta testimonianza delle pietre tombali per numerose generazioni e scopriamo che questi uomini volevano essere ebrei, cioè diversi, ma volevano anche competere, non desideravano l’assimilazione, che coincideva col dissolvimento, bensì l’equiparazione.
Ma ecco il tratto più curioso di queste tombe: "… entro il contorno e gli svolazzi dello stemma si vedono simboli ebraici: il grappolo d’uva, le mani benedicenti dei Kohanim, la brocca dei Leviti, lo stilo degli scribi; o raffigurazioni tratte dal nome ebraico del defunto: il leone, il cervo, l’aquila, la colomba. In un unico contesto, in pochi palmi di pietra corrosa dal tempo, vediamo congiunta la fedeltà alla tradizione con il consenso alla vita: e del resto, nella Lingua Sacra, il cimiero è Bet-Hayyim, la Casa della Vita".


Francesca Orlando

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