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Giuseppe Rimondi esce dal coma

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Giuseppe Rimondi esce dal coma

Con andatura meccanica e sempre uguale l’ uomo attraversa diagonalmente Piazza Maggiore in direzionedel lungo porticato che ne costituisce un lato. Le mani affondate nelle tasche del vecchio monclair, lo sguardo fisso a terra a tagliar fuori il mondo che lo circonda, non bada troppo ai passanti che incrocia. La visuale circoscritta allo sfondo grigio del selciato e’ ritmicamente deformata dall’ ipnotico dentro e fuori delle sue scarpe da ginnastica. Sinistro … destro … sinistro … destro. Altri piedi entrano di continuo nel suo campo visivo ma lui non ci bada.
Prima una coppia di belle scarpine dal tacco altissimo, poi un’ intera comitiva di scarpe "da palombaro", come le chiama lui. Informi blocchi di gomma dalle zeppe spropositate. Ragazzini – pensa – chiassosi e un po’ volgari. Nell’ aria rimane una scia che ricorda una manifattura tabacchi.

Un’ intera citta’ gli scorre accanto ma lui ne avverte la presenza solo quel tanto da non urtare i passanti o gli spigoli dei palazzi. Sono tante ore che cammina cosi’, come un sonnambulo. Da quando e’ statodimesso e il bus del Bellaria l’ ha scaricato in pieno centro, affollato da un’ umanita’ cui non e’ piu’ avezzo e che lo mette a disagio.
Sono passati sette mesi. Molti di coma ed altri per il recupero, dopo che un’ intera parete del vecchio magazzino dove lavorava gli era rovinata addosso per un cedimento strutturale. Commozione cerebrale, trauma cranico, sei costole rotte e una vertebra incrinata. Cosi’ gli hanno spiegato i medici. Hee si’, perche’ lui non si ricorda mica tanto di quel po’ po’ di casino! Quando ci pensa ha un senso di vertigine che gli prende allo stomaco. Si sente confuso. Anche ora. Scrolla il capo, accellera il passo ma il torpore che ha dentro gli avvolge il cervello e lo segue. Proprio come l’appiccicosa nebbia che spesso accompagnava lui e suo padre nelle tranquille giornate di pesca sul Po. Stava sistemando degli scatoloni quando aveva avvertito uno scricchiolio, il bruciare ruvido della polvere negli occhi. Poi un rumore piu’ forte come di mille grattuge all’ opera, l’ impressione di movimento dove di solito e’ immobilita’. Un peso sul petto e la sensazione che il mondo si stesse ribaltando. Infine il buio. Un buio strano, diverso da quello della sua stanza quando si svegliava in piena notte al ritmico russare del vecchio Lorenzi, di la’ dal pietrinfoglio. Un buio … in movimento, ecco, come se…come se stesse scivolando veloce attraverso tunnel lunghi e stretti.
All’ improvviso e’ luce! Luce dorata e limpida come un tramonto di montagna. Luce che non e’ davanti o dietro ma ovunque. Che sente filtrare nella carne come acqua in una spugna secca. L’ impressione di figure indistinte, luci nella luce. D’ un colpo il bagliore si restringe davanti ai suoi occhi per divenire un globo lattiginoso: il lampadario di una camera d’ ospedale. Vede uno sguardo su di lui, poi molti altri, sempre di piu’. Attenti, scrutatori. E’ anche sorpresa quella che vi legge, sconcerto? Avverte sul polso il tocco lieve di una mano fresca, negli occhi il rapido fiammeggiare di una lampadina. Bocche che si aprono, lingue in primo piano. Il bagliore caldo di un dente d’ oro gli appare assurdo e fuori luogo. Le teste che lo sovrastano sembrano deformi caricature del grandangolo di un fotografo in vena di scherzi. Piccole e strette in alto, larghe e massicce verso la mandibola. Si rende conto che tutto e’ silenzio. Vorrebbe parlare ma dov’e’ finita la gola? Al suo posto un duro rotolo di carta vetrata. Poi un orribile gracchiare. Si guarda intorno intimorito. E’ la sua voce. Da quel momento e’ tutto un crescendo.
Un mare di flebo, pappine per neonati, il contatto freddo del cucchiaio.
Mani calde e vigorose in ogni piega del corpo nudo, la’ dove nessuno mai, dopo sua madre, era arrivato. Intenso odore di alcol. Benessere. L’emozione di un ritorno a quotidianita’ smarrite. Scoprirsi capace di cose fino a ieri impossibili, irraggiungibili. Piccole gioie fatte di impercettibili passi avanti.

Una mattina la visita annunciata di un tale del Carlino, il frusciare del registratore, tante domande, tanta insistenza. Odore aspro di sigaro toscano spento. Sguardo disincantato, di routine. "Ma lo sa che ha avuto una fortuna sfacciata?!" Fortuna … LUI? L’ espressione del mio datore di lavoro. Ci leggo dentro il disagio. Disagio e imbarazzo. Parole di circostanza, quelle che si dicono sempre ad un malato ma anche il timore di una richiesta di danni. Cosi’ imparo che non e’ assicurato. Le sue mani grassocce non si fermano un istante e in grembo s’ intrecciano e si torcono come polipi sul marmo di una pescheria. E’ povera gente, lo so, e lo rassicuro in proposito. Il sollievo e’ evidente sul suo viso e ne approfitta per dirmi che l’ uomo assunto al mio posto e’ bravo e ha una famiglia numerosa. Mi fissa ansioso con occhi di pecora. Vorrei sbottare e far valere le mie ragioni. In fin dei conti ho rischiato di morirci, in quel fetido deposito! Lascio perdere, pronto anzi ad accettare la somma che mi offre a titolo di buonuscita – indennizzo.
Tutto, pur di rompere con quella vita. Ho ancora nel naso la muffa del seminterrato, l’ umidita’, l’ odore rancido dell’ olio idraulico che filtrava dal muletto. Tutto vecchio, tutto moribondo e avrebbe potuto diventare la mia tomba. L’ opportunita’ di cambiare. Un segno?

Uno strillo di bambino lo fa sobbalzare e per la prima volta alza gli occhi. Si scuote. E’ vivo e cammina. Deve ripeterselo e lo fa a voce alta. Un signore in grigio dall’ aria seria e grigia lo guarda, nasconde il viso dietro al Carlino e fila via che sembra unto. Poverino, forse ha pensato che gli avrebbe chiesto soldi! Come una liberazione respira a pieni polmoni l’ aria puzzolente del centro, il naso ancora colmo del tanfo penetrante del lisoformio. Impiegati, studenti e sfaccendati,
distinti professionisti e casalinghe con le sporte della spesa. Ora li guarda e li vede: non sono piu’ soltanto piedi su un selciato sconnesso.
La camminata gli e’ servita ma ha l’ impressione che il suo corpo ancora rifiuti d’ obbedirgli, come un cavallo dimenticato ad impigrire in stalla.
La bruma dolorosa che gli affollava il cranio lentamente si dissolve al pallido sole primaverile.

Gia’, e’ primavera – realizza – e alla fin fine con ‘sto coma lui si e’ sciroppato un inverno di meno. Come i signori che vanno a svernare in Riviera o alle Maldive, lui i mesi peggiori se li e’ fatti sulle colline di Bologna, servito e coccolato come un principino! Gia’… l’importante e’ crederci, a certe fregnacce. Strane riflessioni, se ne meraviglia lui per primo, ma che lo aiutano a ragionare in positivo. Sente in tasca il misero rotolo di banconote. Quelli che ricevera’ dall’ ex-datore se li prendera’ quasi tutti il padrone di casa, ma in qualche modo fara’. Gli tornano alla mente i corridoi del Bellaria. Povere creature stese nei letti, pallide come lenzuola, gli occhi persi nel vuoto o fissi sui visitatori con sguardi che danno disagio, anche, e vergogna.
Solo ora realizza di esser stato privilegiato dalla sorte e di non aver alcun diritto di lamentarsi.

Luccicano, le vetrine, di mille invitanti proposte. Distratto, fissa un negozio di abbigliamento e vede giacche e pullover sovrapporsi a piatti di tortellini e zamponi, patate arrosto e galantina a camicie e cravatte.
Si rende conto che da molte ore non mette nulla nello stomaco: possibile che la fame dia simili visioni? Poi accanto ai piatti intravvede i cartellini. Capisce, si gira ed e’ tutto reale: i sogni non arrivano col prezzo attaccato. E’ l’ esposizione di un negozio di gastronomia che sta di fronte. Chiuso fino alle 16, avverte una targhetta. E’ deserta anche la via, stranamente. Piu’ giu’, verso piazza Galvani, un tipo curioso canta con bella voce tenorile un ‘aria dal sapore zigano. Sta su uno sgabello e si accompagna con l’ antiquata fisarmonica. Con ritmica ripetitivita’ d’ automa si sporge in avanti spalancando le braccia per dare aria allo strumento. Ogni volta sembra spiccare il volo sulle sue note. Non c’e’ un’ anima ma lui non se ne cura e il canto fluisce potente. Rotola e rimbalza tra archi e pilastri e l’ eco conferisce ai versi sonorita’ profonde e inconsuete, da canto gregoriano. Marca col piede la melodia struggente e vi si abbandona, il largo viso slavo nascosto da assurde lenti viola. Accanto a lui un bastardino veglia su poche monete ed un bastone bianco. Avverte uno scomodo senso di vergogna per chi non e’ li’ ad affollare quella platea oscenamente vuota.

Piccole ombre ondeggianti segnano la lucida palladiana: due colombi di piazza che alla comodita’ del volo privilegiano la tranquillita’ lenta del passeggio. Simili a stanchi camerieri dai piedi piatti, mi fissano con occhi tondi e stupidi poi proseguono appaiati a becchettare microscopiche briciole di pane. Nella surreale poesia di quegli istanti strani, nell’esibizione del cieco e dei piccioni, sento aleggiare lo spirito birbante e fanciullesco di Fellini.

Si scuote. Davanti agli occhi ancora immagini succulente. Due grandi filoni di roast-beef l’ attirano particolarmente. Carne rosata e succosa dall’ aria invitante. Sente la saliva aumentare di livello e lostomaco reclamare qualcosa di piu’ che belle immagini a colori.

Ecco, se non ci fosse il vetro gli basterebbe allungare un dito per toccare tutta quella mercanzia di lusso.
Fantasticherie dettate dalla fame, lo sa bene, ma non riesce ad impedirsi il gesto, fino a sfiorare lo spesso cristallo e…proprio nel momento del contatto, l’inverosimile! Un leggero bruciore gli invade il braccio. E’ un pizzicore diffuso, una tensione mai provata. Incredulo guarda le sue dita, si’, proprio le sue dita, passare oltre il vetro anti-sfondamento come fosse aria e proseguire senza che questo offra la minima resistenza!
Spaventato ritira il braccio. Si guarda la mano. Trema, coperta da una pelle d’ oca con cui ci si potrebbe grattugiare il parmigiano. Osserva il vetro: intatto. Non una macchiolina, non una screpolatura. Ha le vertigini e freddo dentro, nonostante la temperatura mite. Nel dubbio di essere defunto senza accorgersene, si morde un dito. Vede il segno dei denti.

Il portico e’ ancora deserto. Solamente verso via Rizzoli il passeggio si sta facendo piu’ animato. Riprovare? Si’, si’ ora ri… ecco di nuovo il pizzicore e una debole luce, come la madonnina fosforescente che in ospedale gli aveva regalato il cappellano. E’ dentro con tutta la mano… il braccio ora! Sente contro i polpastrelli il morbido umidore del roast-beef! Tutto succede in un attimo. Ritira il braccio e con esso l’intero filone di carne. Senza pensarci lo infila sotto il giaccone e ripete l’ operazione con l’ altro pezzo.
Guarda a sinistra, guarda a destra. Niente. Nessuno sembra essersi accorto di nulla. Un ultimo sguardo al piatto ora vuoto, poi via, al passo piu’ rapido che le ginocchia malferme gli consentono. Ha un ripensamento.
Torna sui suoi passi, allunga ancora il braccio e… un largo riquadro di crescente va a raggiungere la carne.

I piccioni se ne sono andati ma il cieco e’ sempre li’.
Ondeggiando sul busto, distende senza sosta il soffietto e lo comprime. Per un momento rimane davanti a lui, le mani a trattenere i lembi che nascondono il bottino. Poco oltre ci sono le panchine di piazza Minghetti: la’ potra’ calmare il tremore che lo pervade. Un’ elegante signora lo incrocia, guarda con diffidenza le mani strette al petto, quella protuberanza e cambia braccio alla borsa di coccodrillo. Ogni pochi passi scosta un lembo e annusa il profumo che ne emana. Ancora non ci crede ma i sogni non hanno odori – si va ripetendo – quindi e’ tutto vero… TUTTO VERO! La testa come un vulcano, vorrebbe urlare. Urlare la paura che lo soffoca e gli ingolfa la gola. Si guarda intorno. Sfaccendati, commessi che si affrettano per non tardare alla riapertura, gruppetti di bancari che fan ritorno al grigiore asettico dei loro pici’.
Apparentemente e’ tutto come sempre e la vita scorre nei soliti argini.
Invece nulla e’ come prima, non dopo quel bruciore al braccio. Sente il suo corpo dilatarsi e fremere e si scopre a scrutarsi dall’ esterno con gli occhi di un passante e scoprirsi incredibilmente anonimo e normale. Un qualunque sfaccendato seduto sul ferro rugginoso di una panchina.

Steso sul letto, nella penombra della stanza rigata dalle stecche delle persiane, ripensa immobile a cio’ che ha fatto. Gli pare un sogno, onirica follia generata da un cervello troppo provato. Pero’ la carne sta la’, in mezzo al tavolo. Gli basta alzare la testa per vederla. Un’ idea lo scuote come una scarica elettrica. Con un balzo e’ in piedi, il naso alla parete che lo divide dall’ appartamento accanto. Si rivede in Pavaglione, risente il bruciore alla mano… Perche’ solo la mano? Perche’
non tutto? Se puo’ passare un braccio, cosa impedisce che passi tutto il corpo dall’ altra parte? Qui pero’ non e’ vetro e come allunga il braccio lo vede sparire, come amputato. Dentro la parete. Rimane cosi’, guardando la sua spalla tutt’ uno con il bianco sporco del muro. Avverte lo stesso bruciore. S’ immagina il resto, che ora sta penzolando sull’ altro lato del muro, come una scultura surreale, un trofeo per cannibali. E SE CI FOSSE QUALCUNO !?! Rapido lo ritrae e sente uno strappo ma il braccio e’ integro, intatto come se nulla fosse accaduto. Adesso passo di la’ – si dice – ma non sa risolversi ad infilare la testa, cosi’ prova con una gamba. Poi l’ altra e….ssssssvvvamm… anche il resto e’ dall’ altra parte e si trova in una stanza che non ha mai visto. Deserta, provvidenzialmente deserta. Doveva esserlo per forza, altrimenti sai gli urli! E’ una camera da letto. Canterano, due comodini, armadio con specchio nel quale vede una faccia da matto: la sua. Sedie cariche di libri, vestiti buttati alla rinfusa sulla vecchia poltrona tipo frau.
Che Guevara lo fissa da un famoso poster anni settanta. Sembra perplesso o e’ la sua immaginazione? Si sente come un guardone. In quel mentre s’accende la luce nella stanza accanto. Rumore di passi, qualcuno che fischietta, un peto. Preso dal panico si slancia verso la parete e…opp, e’ di nuovo in camera sua! Non ha avuto neppure il tempo di sentire il bruciore e quel senso di stiramento della pelle sul viso che aveva provato all’ andata.

Vuol capire. Capire che cos’e’ che gli sta capitando. Ma non puo’ andare semplicemente dal medico e domandare: Senta, scusi, come si spiega che posso passare attraverso i muri? Gia’, la prima ambulanza per villa Baruzziana sarebbe la sua! Del resto neppure lui riesce a crederci. E’ pazzesco, inaudito. Libri! Ecco la soluzione. Bisogna che si documenti, che capisca. Mica facile, pero’, trovare qualcosa su un argomento cosi’ particolare. Infatti e’ un fiasco totale sia alla Bibblioteca dell’Archiginnasio che a quella Universitaria. Solo qualche accenno a forti cambiamenti nel comportamento di chi esce dal coma e i particolari del tunnel e della luce che molti altri riferiscono. Ha provato a chiedere ma l’ espressione del commesso quando espone la richiesta gli e’ bastata per fare marcia indietro. E’ stufo di girare come una trottola, perdendo solo del tempo. Tanto vale accettare il fatto e smetterla con le domande.
Resta pero’ il problema che non esistono applicazioni oneste e legali per quella sua nuova incredibile qualita’che d’altronde non puo’ rivelare a nessuno. Se si venisse a sapere finirebbe in gabbia come una cavia. Del resto non ha neppure intenzione di mettersi a fare il ladro di professione, anche se ora nessuna serratura lo potrebbe fermare. Pero’ un’idea … si’, un idea gli sta frullando in testa e piu’ ci pensa e piu’ gli sembra interessante: il giusto compromesso.

Via Zamboni … Piazza Verdi … ecco, via Belmeloro e’ quella li’ a destra. Zona universitaria. Piu’ che di studenti pare popolata di sbandati, etilici, tossici, balordi e sfaccendati. A gruppetti stazionano negli angoli e sotto i portici del Teatro Comunale, dove alcuni di loro hanno organizzato veri e propri accampamenti, con sacchi a pelo e fornelletti. Curioso: loro bivaccano li’ da anni indisturbati mentre sento tanta gente lamentarsi per la precisione con cui arrivano le multe pochi minuti dopo che nelle zone blu e’ scaduto il tempo del parcheggio. Nell’aria un’ odore dolciastro: com’e’ che si dice in latino Š cannabis? Se gliel’ hanno raccontata giusta, il suo uomo dovrebbe abitare li’. E’ una vecchia conoscenza, uno che un tempo stava dalle sue parti. Adesso sono quasi le undici e la gente normale e’ gia al lavoro da un pezzo ma quello tra osterie e discoteche difficilmente rientra prima delle 4 del mattino.
Se non ha cambiato mestiere, stara’ mettendosi in movimento ora e visto che il fine settimana e’ appena terminato avra’ bisogno di rifornirsi di merce.

Odore di umidita’ e di ascelle sudate. Di profumo da poche lire, anche.
Alcuni giovinastri scarmigliati scappano fuori dal nulla assieme ad un’orrenda cacofonia metallara. Non mostrano di accorgersi di me e per poco non mi travolgono. – Scusa tanto – ridacchia una ragazzetta coi capelli fucsia, un grappolo di anelli ad un lobo e una sacca militare a tracolla – ma siamo in ritardo! – Terzo piano e difatti sulla porta una targa di ottone luccicante dice "Boemini Nestore". Tutto un programma. Certo pero’ che i genitori, con un cognome cosi’ potevano scegliere un nome normale!
Al centro, la toppa cromata di una serratura di gran costo. Avvicino l’orecchio al battente che appare verniciato di fresco. Nessun rumore, salvo quello di un frigo che ricarica. Il pianerottolo e’ deserto. Preferisco che nessuno mi veda davanti a questa porta, cosi’ e’ questione di un attimo. Mi appoggio e…sono dentro. Servita a poco la Mottura, ragazzo mio … Puzza di piedi. Nella penombra verdastra delle veneziane rimango immobile per abituare la vista. Mi guardo intorno. Arredamenti e accessori costosi, risultato di una scelta non di gusto ma di portafoglio.
Alla mia destra un acquario gorgoglia sommesso mentre una coppia di pesci piroetta attorno a un’ anforina pseudo-romana posata sul fondo.
Inciampo in un paio di stivaletti di lucertola abbandonati sulla moquette color lattuga. Per fortuna l’ abbondante peluria attutisce ogni rumore.
Pareti rivestite di stoffa a colori vivaci. Qualche quadro. Le porte davanti a me son tutte spalancate. Una sembra lo studio, l’ altra e’ la cucina. Aitec, mi pare che si dica. Tutto inox e led colorati: pare di essere in un sottomarino o in sala operatoria. Mensole e armadietti modello ambulatorio rivestono le pareti. Accanto ai fornelli vari apparecchi le cui funzioni mi sfuggono. Riconosco solo il tostapane. Peccato che la confusione regni sovrana. Bicchieri e piatti sporchi dappertutto, perfino nel bagno lastronato in virile marmo nero screziato di grigio. Biancheria sparsa sulle poltrone; un paio di boxer dolce e gabbana, visibilmente usati spenzolano gagliardi dal bel TV Bang & Olufsen. Bel cialtrone, il signorino, ma in grana. Dorme, arrotolato al copriletto di raso azzurro. Borbotta nel sonno e si agita. Nel pigiama a righe anni sessanta sembra una vecchia pubblicita’ del Permaflex, Mi sa che dovro’ armarmi di pazienza ed attendere sulle scale. Due ore mi fa aspettare ma io ho con me la settimana enigmistica e sono paziente.
Indossa pantaloni marroni quando esce e giacca di pelle nera e appoggiato su una spalla uno zainetto dello stesso materiale e colore.
E’ spettinato e visibilmente rintronato dai vizi della notte appena trascorsa. Imbocca le scale e scende senza neppure guardarsi intorno così no nota il sottoscritto che si e’ nascosto una rampa piu’ su. Lo seguo. Non devo perderlo. Per sicurezza, visto che mi conosce, ho messo gli occhiali scuri e una coppola sformata. Cammina deciso, imboccando via Zamboni poi a destra via Castagnoli. Gli sto sempre dietro, ma sull’altro marciapiedi. La strada e’ piena di giovani che a quell’ ora affollano bar e trattorie; cosi’ posso facilmente seguirlo senza che lui se ne accorga. All’ inizio di via Mascarella entra in una vecchia casa e il portone si chiude con uno scatto alle sue spalle. Mi fermo sotto al portico, cosi’ da farmi superare dai due che mi camminano alle spalle.
Non badano a me, persi in un parlottio continuo. Si tengono stretti stretti, entrambi inguainati in jeans che potrebbero esser fatti con la vernice. Quando mi passano davanti m’ accorgo che sono due donne. La piu’ giovane lampeggia un’ occhiata dura, branca con gesto di possesso una natica della compagna e se la porta via (la compagna, non la natica).

Mentre mi appoggio alla porta arriva un cagnetto sbiadito. Sembra un volpino e infatti di quella razza ha gli occhi espressivi e la coda a ricciolo. Mi ignora ma sottopone ad accurato esame olfattivo le colonne. Non pare soddisfatto e per precauzione scarica goccetti di pipi’ ad ogni spigolo. Devo sbrigarmi o non lo trovero’ piu’. Un’ occhiata: nessuno. Passo. Solito senso di bruciore. Gradini stretti e lisi di un grigio indefinibile che le poche tartarughe stentano ad illuminare. La
ringhiera ondeggia al mio tocco e vibra. Le scale sono deserte e silenziose. Posso solo origliare alle porte sperando di sentire la voce del mio uomo. Se gia’ si trova in una stanza interna, mi tocchera’ visitare tutti gli appartamenti. Al terzo tentativo lo trovo. Attraverso il sottile strato di compensato, la sua voce mi arriva distintamente. Sta discutendo animatamente con qualcuno, ma da dove mi trovo riesco a sentire solo lui. Azzardo un piccolo controllo e cautamente infilo la testa
nella porta, rimanendo abbagliato dal lampadario che illumina a giorno l’interno.

Non c’e’ nessuno, cosi’ m’ insinuo. Voglio dare un’ occhiata in giro. Un semplice sopralluogo, perche’ se il posto e’ quello che penso io mi serve solo di vedere la faccia di chi ci abita. Sono seduti ad un tavolino di legno scuro, una specie di scrivania. Da una parte sta il mio uomo, che da questo momento puo’ andare a farsi benedire, e dall’ altra uno spilungone secco secco. Naso enorme, pochi capelli in testa e un vistoso gozzo che gli sporge dal collo ossuto. Sembra l’ avvoltoio di Walt Disney ma gli occhi sono piccoli e freddi come pezzetti di carbone. Bene, non avro’ difficolta’ a seguire uno cosi’. Sul piano, davanti a loro un bel mucchietto di soldi, un sacchettino trasparente pieno di bustine bianche nel quale il Nestore sta frugando e una bilancina da orefice. Non mi serve altro e in punta di piedi me la svigno col solito sistema. Ho fretta di uscire dall’ appartamento, cosi’ mi dimentico di controllare se il pianerottolo e’ libero. Per un pelo non finisco sulla schiena di un vecchio che ciabatta verso il basso senza neppure accorgersi di me. Un secondo prima mi avrebbe visto uscire attraverso il legno.

Il mio uomo di via Belmeloro e’ il primo gradino di un grosso giro di roba. Eroina, coca, hascish, marijuana, ectasis e crack e ogni altra schifezza che sul mercato si riesca a piazzare. L’ idea sarebbe di risalire la catena per arrivare dove c’e’ il denaro vero, quello a mucchi, a montagne. Finora e’ stato facile. Si e’ trattato di pesci piccoli, che lavorano da soli. D’ora in avanti invece trovero’ sentinelle e guardie e io mica sono gems bond. E’ un lavoro di attese, quello in cui mi sono messo, ma non ho alternative e se perdo un passaggio son fregato. Non mi ci trovo in questo ruolo da telefilm americano, mezzo delinquente e mezzo poliziotto.

E" sera e piove. Un’ acqueruggiola lemme lemme che entra nelle ossa e ti fa venire voglia di un camino acceso e di una comoda poltrona. L’ asfalto di via Galliera e’ lucido e riflette i globi luminosi dei lampioni e i fari delle poche auto di passaggio. Nonostante la protezione del parka sono bagnato come un ninein, come un maialino. La macchina non ce l’ho e il motorino era l’ unico modo per seguire la golf dell’ Avvoltoio, come ho deciso di chiamare lo spilungone. Sono tre giorni che gli sto dietro e questo qui e’ uno che non sta mai fermo. Shopping, barbiere, l’ aperitivo da Zanarini, uffici, banche, anche un paio di cinema, insomma mai un attimo di sosta. Perfino un Teatrino porno dietro via Indipendenza. Per evitare che s’ accorga di me, ogni tanto cambio un poco aspetto: tolgo o metto il cappello ( ora ne ho tre diversi modelli), gli occhiali ( anche di questi ne ho tre paia) e un vecchio impermeabile comperato in Piazzola.
L’ ho scelto perche’ da un lato e’ grigio e dall’ altro nero. Ecco, questa e’ una parte della preparazione che mi ha divertito. Sono sempre stato affascinato dalla capacita’ degli attori di cambiare fisionomia, di variare il loro aspetto semplicemente modificando la postura o il passo. I sistemi per alterare i tratti del viso: cuscinetti per le guance, baffi e barbe. e tanti strani ammenicoli. Suppongo che c’entri il desiderio che e’ in ognuno di noi di volare via da una realta’ troppe volte masticata e
di cambiare vita ad ogni nuovo personaggio. Mi sento come l’ ispettor Cluso’ di Piter Seller ma per fortuna non ho il patema del cameriere giapponese con i suoi attacchi a sorpresa di giudo’. L’ Avvoltoio sta parcheggiando di fronte a palazzo Montanari. Lo conosco bene, perche’ mia mamma ci veniva tanti anni fa a comperare le fodere in un magazzino a piano terra e spesso mi portava con se’. Ci serviva sempre un commesso piccolo e azzimato dal nome imponente: Dino Sauro! Chissa’ mai perche’ quando si presentava, lui metteva sempre prima il cognome. Tutte queste attese mi han fatto venire il male di schiena e la voglia di fumare.
Proprio a me, che non ho mai toccato una sigaretta! L’ androne e’ signorile. Una serie di targhe indica la presenza nel palazzo di vari studi professionali. Secondo piano. Una grande loggia con un finestrone che da’ sul cortile interno. Sulla parete una lapide dall’ aspetto vetusto: che Garibaldi sia passato anche di qui? Leziosi riccioli di ferro battuto non riescono a mascherare il robusto telaio di acciaio di un cancelletto in stile, cosi’ come i pannelli di mogano che rivestono il portoncino blindato. Ecco, le luci delle scale si sono spente. Ho pensato piu’ sicuro entrare dal muro, per evitare eventuali guardie. Mi fa una strana impressione attraversare spessori cosi’ grossi; il senso di stiramento e’ piu’ marcato e non vedo nulla, anzi tengo gli occhi chiusi.
Pero’ devo fare attenzione. La stanza in cui mi trovo sembra quella di un bambino. Devo andare oltre. Sbircio. E’ un largo corridoio, con le pareti fittamente tappezzate di quadri: una specie di galleria d’ arte. Le luci sono tutte accese e sento delle voci provenire, presumo, dalla grande porta chiusa, in fondo al corridoio. Da quella di fronte a me giungono invece suoni da un televisore: l’ ennesima partita di calcio. Azzardo un’ occhiata veloce. Un divano, due poltrone, alcuni tavolini antichi. Sono in due e seguono attenti l’ azione che si svolge sullo schermo. Non battono nemmeno le palpebre. Davanti a loro lattine di coca, bicchieri,
una confezione di popcorn e un grosso revolver. In perfetto silenzio, grazie alle suole di feltro, percorro il corridoio e le voci si fanno piu’ distinte. Rumorosissimo invece il cuore che mi tuona in petto. – …ente di roba ne ho finche’ ne vuoi. Roba di qualita’ assoluta, ma per chi vuol spendere poco c’e’ anche la schifezza, ahahahah. L’ importante e’ che abbiano la grana! – E’la voce di una persona istruita, colta. – Si’, si’, il mercato tira e i miei ragazzi stanno lavorando proprio bene.
Mmm… fantastico questo cognac! – Questo invece e’ l’ Avvoltoio.
– Ma quale cognac! Barbancour di Haiti! Rum, e del migliore, altro che cognac! Va" be’, ora parliamo di affari. La pross…- Il rumore di una sedia smossa, un’ imprecazione a mezza bocca mi fan battere in ritirata verso il bagno, ma e’ un falso allarme. – …percio’ bisogna spingere. Che facciano nuovi clienti. Le discoteche, di’ che insistano nelle discoteche. Li’ di coglioni se ne trovano sempre! Quanti sono questi, trecento? OK, aspetta che li metto via. – Sentendo quelle parole infilo
dentro la testa. Il minimo indispensabile per poter vedere. E’ uno studio.
Molto lussuoso e quasi interamente rivestito di libri antichi. Accanto al monumentale camino un divano. Sopra, una figura sdraiata e immobile. Il paralume blu della lampada conferisce ai lunghi capelli biondo cenere un riflesso ultraterreno. Sta leggendo, la donna, e non pare curarsi della vestaglia generosamente aperta sui seni e sulle cosce abbronzate.
Sull’ altro lato una grande scrivania carica di fronzoli dorati e varie poltroncine in pelle bordo’. Un bellissimo soriano grigio dorme in un angolo, arrotolato come un tortellino. Mentre lo osservo alza di scatto il muso e mi fissa con liquidi occhi color del moscato. Intanto che il padrone di casa traffica nell’ enorme cassaforte, l’ Avvoltoio ne approfitta per dar giu’ alla bottiglia di… accidenti, come l’ ha chiamato? Ho la visione fugace di due ripiani carichi di mazzette prima che il pesante sportello si richiuda, la tenda copra il tutto e io ritiri la testa dal muro. – Ma ti fidi a tenere quella massa di soldi in casa? – borbotta con falsa noncuranza lo spilungone. – No, tanto e’ vero che domani mattina porto via quasi tutto. Aspettavo i tuoi. Visto cosi’ non sembra, ma ci sono quasi otto cucconi, sai, li’ dentro! Piu’ del solito, ma in quest’ ultimo mese non ho avuto tempo e cosi’…. – OTTO MILIARDI?! ma si’, ha detto otto cucconi e i cucconi non possono essere che miliardi.
Per la miseria …otto miliardi! Pronuncia la cifra a bassa voce mentre scende le scale. Otto miliardi…come si scriva una cifra cosi’ manco lo sa. Ma tu pensa quanta gente lavora una vita e non vede neppure la decima parte di ‘sti soldi, e questo qui li mette insieme in un mese.Un mese!! Se ne va scuotendo la testa, si sente polemico ed esce dal portone come un forsennato. – MADONNA, MADONNA SANTISSIMA, BEDDA MADRE!!! LO GIURO, NEMMENO UN GOCCIO BERRO’ PIU’,LO GIURO’ !!! Pure i fantasmi che escono dal muro, ora. No, no, la devo smettere con ‘sta robaccia …- Il mezzo barbone che stava accucciato di fianco al portoncino se ne va veloce senza neppure girarsi indietro. Lo guardo sparire per via Volturno, mentre il suo borbottare si fa sempre piu’ indistinto. Chissa’, magari la mia disattenzione lo fara’ davvero smettere con la bottiglia. Pero’ devo stare attento. Gia’, me lo dico sempre.

Sono talmente sottosopra per cio’ che e’ appena successo che non riesco a riordinare le idee. – Otto miliardi ha detto, mmmm, e ha anche aggiunto che domani li porta al sicuro. – La decisione arriva da sola, si puo’ dire. Finita la corsa, finiti gli appostamenti, i sotterfugi e i travestimenti, che si sentiva anche ridicolo. Non pensava…credeva che avrebbe dovuto risalire altri passaggi, scoprire altri anelli della catena della droga. Invece e’ capitato nel posto giusto al momento giusto. Quindi
e’ per questa notte. Non puo’ essere diversamente. O la va o la spacca, ma lui a lavorare in una cantina non ci torna piu’. E poi gli hanno detto che ora grossi sforzi non li puo’ piu’ fare. Si’, ha gia’ deciso. Sono quasi le nove e d’ impulso decide di offrirsi una lussuosa cena. Ora che la decisione e’ presa si e’ scoperto una fame da lupo e la voglia di festeggiare. Tornera’ li’ alle 4, percio’ di tempo ne ha da vendere.

Antipasto di salumi misti, tortellini in brodo, tagliatelle al ragu’ e bollito misto con la salsina verde che gli piace tanto. Per finire un bel cremcaramel. Un meraviglioso sangiovese come lubrificante. Una cena che gli e’ costata cio’ che aveva in tasca e che ora lo fa sentire come se avesse un camion nello stomaco. Forse ha un tantino esagerato, ma ne valeva la pena. Era tanto che voleva entrare al Diana. Mai avrebbe pensato che un giorno si sarebbe trovato a domandarsi che valigie servono per
portare otto miliardi. Dovendo decidere su due piedi ha preso cio’ che era disponibile in casa e cioe’ un’ enorme valigia di finta pelle gialla e una sacca in tela con la scritta LINES – LE ALI DELLA LIBERTA’. Un po’ ridicolo ma pensando a cio’ che tra poco conterra’, anche ironico, no? Capisce che non e’ il caso, ma non riesce ad impedirselo. Si sorprende a sorridere a due ragazze orrende che ha appena incrociato davanti al Metropolitan. Quelle lo squadrano, vedono la sacca lines e accelerano alzando il mento, le principess

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