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Hardcore Superstar – Thank You (For Letting Us Be Ourselves)

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Hardcore Superstar
Thank You (For Letting Us Be Ourselves)
(Music For Nations, 2001)

Capita spesso di sentir dire che per ogni band il secondo album è sempre quello più difficile. Questo accade perché solitamente il debutto può contare su materiale elaborato per mesi o anni; mentre la second time around vive forzatamente di tempi più ristretti, maggiori pressioni e ritmi incalzanti, in particolare quando il primo lavoro aveva destato impressioni positive e alimentato conseguenti aspettative.
Gli svedesi Hardcore Superstar ovviamente non si sottraggono a questa regola non scritta: impostisi all’attenzione (non proprio planetaria, va da sé, ma discreta almeno nel proprio ambito) con lo scoppiettante Bad Sneakers And A Piña Colada, si ripresentano ora con il fatidico ed atteso seguito. A guisa di introduzione sia utile accennare al fatto che gli HS sono una band di sano e semplice rock’n’roll, interpretato nell’accezione stradaiola e godereccia degli Stones, degli Aerosmith d’annata o dei primi Guns N’Roses: chitarra elettrica in primo piano, ritornelli di facile presa, vocals opportunamente sguaiati e robusto supporto della sezione ritmica.
Date queste premesse, scartando Thank You mi aspettavo legittimamente di ascoltare qualcosa di non troppo diverso dal debut album, e devo dire che le mie sensazioni in tal senso sono state confermate. Lungi però dal mero immobilismo nel quale potevano facilmente cadere, i quattro musicisti svedesi hanno provveduto ad incorporare in piccole dosi nuovi elementi nella loro proposta, senza spersonalizzarla ma arricchendola piuttosto di qualche sfumatura inedita.
Al primo ascolto in realtà avevo arricciato un sopracciglio. Mi sembrava di avere a che fare con una versione annacquata degli HS che ricordavo, una piatta via di mezzo fra i Bon Jovi da classifica e il primo Bryan Adams… oddio, ho pensato, non si salva più nessuno! In effetti già all’epoca del loro esordio gli HS, per voce del cantante Jocke Berg, avevano messo in chiaro che proprio l’attenzione per il lato melodico li avrebbe distinti, e a suo modo di vedere resi migliori, dagli apparentemente omologhi gruppi di street rock sorti qualche tempo prima in Scandinavia (Hellacopters, Gluecifer, Hives…). Una simile dichiarazione d’intenti poneva in un certo senso le premesse per una possibile e temibile degenerazione commerciale della loro musica, e forse proprio l’eco di questo timore mi aveva dapprima spinto a sentirlo confermato nelle note di Thank You… ma fortunatamente sono bastati una decina di minuti di ascolto più attento a farmi tornare sui miei affrettati giudizi. E’ vero, Bad Sneakers And A Piña Colada era più tirato, più immediato e sanguigno, ma Thank You non è comunque il prodotto di un imborghesimento.
Silver, il tatuatissimo chitarrista, aveva anticipato in un’intervista rilasciata lo scorso anno che il nuovo lavoro avrebbe segnato l’ingresso nella musica degli HS di una chitarra acustica e di arrangiamenti d’archi, e che a prescindere da questo sarebbe stato in ogni caso diverso dal precedente sulla scorta della risaputa ma sempre valida considerazione che "all the albums are different, just because they are all different periods of time". Ora, ogni appassionato di musica rock sa che chitarre acustiche e arrangiamenti d’archi talvolta si traducono nella pratica in sonorità mielose e ruffiane, e che comunque hanno qualche problema a convivere con l’attitudine schietta e ruvida dello street rock. Gli HS qui però hanno dimostrato di sapersene servire senza eccessi.
Rispetto a Bad Sneakers And A Piña Colada quest’album suona un po’ più pulito e raffinato, più che altro perché in primo piano reca ballate di grande presa come Summer Season’s Gone, Dear Old Fame o Mother’s Love (quest’ultima un po’ retorica, ma non tanto da risultare stucchevole); e perché, se Silver ha imbracciato l’acustica, Jocke da parte sua ha svelato un lato inaspettatamente ma gradevolmente… soft del suo repertorio vocale. Ma quando c’è da tirare, da snocciolare i ritornelli a presa istantanea ed a far viaggiare basso e batteria, gli HS sanno ancora ritrovare la strada di casa: Just Another Score, tanto per dirne una, si beve tutta d’un sorso e non perde un colpo, e Jocke qui diventa un po’ Axl Rose, un po’ Steven Tyler ed un po’ Bon Scott…
Parlando in generale, i tempi di Thank You sono meno furiosi di quelli che caratterizzavano il predecessore ma i suoni continuano a colpire dritto al cuore. Evoluzione c’è stata, ma senza che i cambiamenti snaturassero o svilissero la base di partenza. Già così gli HS hanno, a mio modo di vedere, un discreto potenziale da classifica: se è vero che ai discografici basta schioccare le dita per far piombare dritti nella top ten i vari Blink-182 e Linkin’ Park, allora se solo lorsignori lo volessero anche questi quattro ragazzi venuti dal freddo potrebbero accomodarsi da quelle parti senza rubare niente a nessuno…

Fabrizio Claudio Marcon

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