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Ciak: si muore

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CIAK: SI MUORE

Il Festival dei popoli di Firenze ha proposto quest’anno, tra le sue sezioni, una riflessione dedicata al tema della morte al cinema, dalla messa in scena della morte, quella recitata, alla morte reale come soggetto di una ripresa cinematografica, dalla morte dentro il set fino alla morte del cinema stesso.
Nella narrazione cinematografica, la morte può costituire il motore del racconto, collocata all’inizio o alla fine della storia: essa sembra essere, in alcuni casi (Viale del tramonto di Billy Wilder) l’unica condizione da cui sia possibile raccontare la vita: morte come insostituibile e inevitabile compimento, che dà senso retrospettivamente all’intera esistenza, al pari del montaggio per il materiale di un film, secondo l’analisi pasoliniana, confermata dal suo percorso cristologico da Accattone fino al Vangelo secondo Matteo.
Fin dalle origini del cinema, le immagini sullo schermo sono state interpretate come figure provenienti dal mondo delle ombre, spettri da un altro tempo e da un altro luogo, in grado di aggiungere una dimensione in più alla nostra esistenza quotidiana. Wilder, invece, ci propone il cinema come fonte di vita dei suoi protagonisti (Norma Desmond/Gloria Swanson), al di fuori del quale vi è soltanto un’esistenza anonima che equivale alla morte.
La morte, messa in scena, contiene in sé grandi potenzialità affabulatorie, come dimostra l’intera opera di Peter Greenaway, di cui abbiamo visto Les morts de la Seine, una finestra sulla Francia rivoluzionaria, attraverso un’elencazione necrofila che si rivela una notevole fonte di storie e curiosità, recuperando la memoria di vite che nessuno ricorda più, la cui morte è stata registrata in un calendario, quello rivoluzionario, anch’esso scomparso.
Il cinema ha rappresentato anche la morte che non appartiene alla finzione ma al mondo reale: quella morte reale filmata che, secondo la visione umanistica del cinema di Jean-Louis Comolli, cancella il desiderio vivo dello spettatore che il film resista alla morte e allo stesso tempo annulla il "prima" e il "dopo" della narrazione, salvo che la morte venga deliberatamente provocata per filmarla (snuff-movies) ovvero che il cinema filmi il processo di avvicinamento alla morte.
Quest’ultima ipotesi può contare su numerosi esempi, in un mix tra realtà e messa in scena dai confini non sempre decifrabili: la morte naturale, in film che hanno come soggetto la lenta agonia del protagonista malato – Nicholas Ray in Nick’s movie di Wim Wenders – e, allo stesso tempo, rappresentano l’ultima recita nel palcoscenico della vita – nel documentario Sehnsucht Nach Sodom, sulla malattia di Kurt Raab, uno degli attori prediletti di Fassbinder; la morte procurata dalla legge, di cui il cinema sottolinea la gratuità nei numerosi docufilm che testimoniano storie di condannati a morte, riuscendo in rari casi anche a intervenire sulla realtà, modificandone l’esito – The Thin Blue Line, di Errol Morris, che riuscì anche ad ottenere la revisione del processo.
Il cinema di fiction ha riflettuto, e non da oggi, sulla spettacolarizzazione della morte attraverso le immagini e i media in generale: pensiamo a La morte in diretta di Bertrand Tavernier, in cui gli occhi del protagonista diventano una telecamera per filmare gli ultimi giorni di Romy Schneider, o a La decima vittima di Elio Petri, fantascienza nei toni della commedia su un mondo in cui ogni angolo di strada si trasforma in set della lotta tra cacciatori e prede, o ancora a Il cameramen e l’assassino, parossistico reportage televisivo sulla vita quotidiana e le efferatezze di un serial-killer. In tempi non sospetti, il cinema ha descritto l’ossessione per la morte filmata: pensiamo a L’occhio che uccide di Michael Powell, che prefigura, nel 1960, il fenomeno contemporaneo ed illegale degli snuff-movies. E proprio la vittima di uno snuff-movie è il protagonista di The Brave di Johnny Depp, che, con il compenso per questo sacrificio volontario, cerca di salvare la propria famiglia dalla miseria: la morte al cinema diventa fonte di sopravvivenza.
La morte nel making del cinema è un motivo che, fin dalle origini, ritroviamo come rischio connaturato alla lavorazione, il cinema cioè partecipa della morte che si svolge davanti al suo obiettivo (peraltro, ogni set cinematografico ricorda un funerale secondo J. L. Comolli: il silenzio, la posizione dei tecnici, la gravità e la solennità che lo caratterizzano). Si tratta in questo caso di una morte bianca, il cui rischio è ben presente all’intero sistema cinematografico, che anzi intende in tal modo soddisfare il desiderio dello spettatore di spingere sempre oltre il limite di resistenza dei corpi immaginari dello schermo, mantenendosi però una sorta di distanza di sicurezza dal fenomeno rappresentato, anche se in epoca di interattività, l’atteggiamento dello spettatore è cambiato radicalmente. Questa morte sul set è diventata anche soggetto di film: da Shooting Stars (1929) di Asquith e Bramble, autentica rarità, in cui la morte di un’anonima controfigura non ferma la lavorazione del film e si assiste alla realtà della finzione della morte, a La ricotta di Pasolini, nel quale Stracci, comparsa di Cinecittà, sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, muore come ladrone sulla croce…per indigestione.
La negazione della morte, l’immortalità, ha rappresentato un altro soggetto ricorrente, a partire da quella che il cinema stesso ha garantito ai suoi protagonisti, preservando le immagini dei loro corpi e dei loro volti, proprio mentre filmando il tempo ne attestava il progressivo invecchiamento; ne sono ulteriori esempi: l’immortalità concessa all’eroe, come è il caso di Che Guevara, mostrato cadavere nel film El dia que me quieras, ma nella fierezza di chi ha combattuto per i propri ideali senza arrendersi fino all’ultimo, che ne preserva il mito; l’immortalità del mostro, il non-morto del cinema horror, che ha per protagonisti vampiri, mummie, zombie (ma in Dellamorte Dellamore, ispirato a un romanzo di Tiziano Sclavi, la prospettiva si ribalta e i vivi sono più spietati dei morti); per arrivare al mito dell’immortalità in Orphée, di Jean Cocteau, che per amore arriva a sconfiggere la morte attraverso una discesa negli Inferi, passando, come Alice, attraverso lo specchio. Di questo tema della discesa agli inferi e della possibile resurrezione il cinema conta numerose versioni contemporanee, da Apocalipse now di Coppola a Blade Runner di Scott.
Il cinema è una malattia, crea dipendenza ("l’antidoto al cinema è più cinema" secondo Scorsese), uccide, ma anche ridà la vita: in un racconto di Robert Bloch, nella raccolta einaudiana "Lo schermo dell’incubo", anonime comparse di Hollywood riescono a infilarsi nelle immagini di vecchi film restaurati e dall’angolo dello schermo salutano e sorridono. Tutto ciò fintanto che l’usura delle pellicole, la morte definitiva del cinema, non cancellerà tutte quelle figure la cui immortalità è legata alla celluloide.

Paolo Baldi

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