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Una tranquilla giornata

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Una tranquilla giornata in fabbrica, tra pensieri, parole e omissioni

Quanti anni,
giorno per giorno,
dobbiamo vivere con uno
per capire
cosa gli nasca in testa
o cosa voglia
o chi è,
turisti del vuoto, esploratori di nessuno,
che non sia io o me.
(Guccini)


È una giornata serena e fredda, una tipica giornata invernale nella Pianura Padana: la nebbia mattutina si è alzata lasciando spazio a un sole il cui riflesso acceca ma non scalda.
Guardando verso Nord è immediato vedere le Alpi, già abbondantemente innevate dagli eventi meteorologici dei giorni precedenti. Il difficile è riuscire a guardare verso Nord.
L’unica finestra dell’ufficio è rivolta a Sud e, cosa ancora più triste, lo spettacolo che si offre è quello del cortile di una fabbrica. È una fabbrica come tante, dove si entra la mattina presto, quando ancora le tenebre non sono state sconfitte dai primi bagliori dell’alba, e si esce la sera quando oramai i lampioni della illuminazione pubblica sono l’unica fonte di luce, insieme allo sfrecciare incessante dei fari delle automobili o quelli più minacciosi dei camion.
L’unico aspetto naturalistico è il ghiaccio, formatosi nelle pozze dell’acqua utilizzata per lavare il piazzale, che combatte una impari lotta con il calore del giorno e con il passaggio dei mezzi pesanti.
Non cerchiamo il pelo nell’uovo dicendo che misto all’acqua c’è olio e una miriade di variopinti inquinanti che resistono al gelo; accontentiamoci di osservare il riflesso dell’arcobaleno quasi ovunque sul piazzale.
Questo, come tanti altri, è un lavoro di merda, un lavoro che però siamo costretti a fare in quanto tale, in quanto la società moderna, quella che va del consumismo più sfrenato al comunismo irriducibile ed utopico, ci obbliga a fare per vivere; non per vivere meglio, ma solo per sopravvivere.
Quasi nessuno troverà il lavoro ideale, e non sto parlando del lavoro in cui si fatica poco, ma si guadagna tanto. Sto solo parlando di un lavoro che ci appaghi come persone, che ci realizzi per quello che siamo, che abbiamo studiato o abbiamo imparato o che semplicemente ci piaccia; un lavoro che ci faccia venir voglia di presentarci con il sorriso sul viso alla mattina e con un’espressione soddisfatta la sera quando torniamo a casa. Un lavoro che rispetti i nostri interessi o le nostre indoli, senza dover quindi, necessariamente, indossare una maschera quando si apre la porta dell’ufficio e si incontrano i colleghi, che magari detestiamo.
È la nostra vita e, in questo modo, la perdiamo. Non avremo mai una seconda opportunità. Lasciamo andare questa e nulla avremo tra le mani se non quarant’anni spesi inutilmente per aver qualche giorno di ferie su una squallida spiaggia riminese o caraibica, dove incontreremo altra gente odiosa e finta e che sopporteremo solo per far buon viso a cattivo gioco, diventando noi stesso finti.
Lavoriamo tutta una vita e poi cosa otteniamo? I più fortunati avranno una pensione e avranno risparmiato un po’ di soldi utili per pagare le spese mediche e magari un posto in un ospizio pulito dove le infermiere fanno le moine solo perché questo è lo standard di servizio che devono offrire.
Qualcuno non arriverà alla pensione perché la ricerca medica ha sì trovato il modo di prolungare l’agonia di tante malattie, ma non è ancora in grado di prevenire gli accidenti, siano essi incidenti nel senso più comune della parola o siano malattie.
Chi arriverà alla vecchiaia cercherà la ragione della sua vita nei figli, o nei parenti o in chissà chi, ignorando il fatto che il dolore è limitato nel tempo, dura più della felicità e può essere più intenso, ma non è comunque eterno. E allora che soddisfazione c’è nel dire: "Ho tirato su un bravo ragazzo che ha un posto sicuro e una brava moglie. Mi ha fatto diventare anche nonna"? Come se tutti ragionassimo pensando solo ed esclusivamente a quello che piace ai nostri genitori. E poi? Se i figli vivono per i genitori e i figli dei figli per i figli dei genitori, chi vive per se stesso? Perché qualcuno deve vivere la vita al posto mio, mentre io la vivo per qualcun altro?
È triste.
È ancora più triste, svegliarsi una mattina e rendersi conto che non siamo più autosufficienti, che non solo dobbiamo chiedere aiuto per mangiare o per bere, ma anche per lavarci o per andare in bagno per assolvere ai nostri bisogni fisiologici; o, non so se è peggio o meglio, non ce ne rendiamo proprio conto perché siamo diventati dei vegetali.
E allora che senso ha la vita? Siamo vivi solo perché respiriamo? Possiamo affrontare il discorso da mille e più punti di vista, da quello religioso o da quello laico, da quello moralista a quello razionale, da quello spirituale a quello materialista, ma non avremo mai una risposta. Anzi, avremo tante risposte, ma mai nessuna certezza. Tante campane che suonano, ma non sapremo mai quale sarà la melodia giusta.
E in tutto questo marasma ti domandi se vale la pena vivere.
E poi vedi il sorriso sdentato di una bambina che sorride al mondo, sorride al mondo con lo stupore di chi scopre qualcosa di nuovo, di eccitante, di sorprendente; o vedi il riflesso delle montagne innevate dalla prima neve novembrina; o senti il silenzio dopo una nevicata, un silenzio tranquillizzante nella nostra civiltà frenetica, un silenzio che rallenta i movimenti e le azioni, un silenzio che più che una sensazione è un sentimento; oppure vedi il sole tramontare sull’acqua che scorre rapida in un torrente montano e tutte le increspature rendono gli ultimi raggi rossastri baluardi contro l’ignoto: si muovono, saltano, combattono contro dei mulini a vento; o inizi a camminare tra la nebbia padana, quella nebbia che Totò voleva tagliare con il coltello, ma che è troppo furba per lasciarsi impalare, quella nebbia che ti nasconde dal mondo e il mondo.
In tutto quello che ci circonda riusciamo a trovare qualcosa di buono, qualcosa che ci commuove, perché il solo provare un’emozione vuol dire che quel qualcosa che ce la provoca è importante. Qualsiasi sensazione è importante; è meglio provare odio o rabbia piuttosto che vivere nell’apatia. Anche nella violenza, caso estremo, si riesce a trovare qualcosa di positivo o comunque qualcosa che ti fa pensare e meditare e questo è già molto positivo se si vive in una società in cui il pensiero viene sostituito dalla frenesia e i sentimenti soppiantati dalle macchine; può essere la vita del violentato o la storia del violentatore o chissà che altro; basta guardare con gli occhi giusti, gli occhi dei sentimento e non quelli dell’aridità, se mai questi ultimi possono esistere…

Spalla (continua)

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