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III: Tales from the other side

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Tales from the other side
(terzo classificato)

Uno scialbo sole di una fredda mattina autunnale si profilava all’orizzonte, quasi invisibile, coperto da una nebbia vaporosa e irreale. Resistevano, le ultime stelle della notte, attaccate ad un cielo plumbeo. Si stava facendo largo un nuovo giorno, destinato ad essere ricordato per molto tempo. Alta, vegliava la luna, pallida ed eterna sfera. Il freddo pungente sembrava penetrare ogni cosa. I pochi alberi erano ritorti, il legno marcio da molti anni; era un territorio paludoso estraneo ad ogni forma di vita. Solo immondi insetti strisciavano sul fango malsano, intarsiandolo di grotteschi fregi. Il terreno era molle, monotona distesa, infinito intreccio di colori scuri, intervallati da grosse pozze d’acqua che riflettevano un cielo carico di nubi e oppressione. Saltuariamente balenavano lampi neri in lontananza, ma mai sopraggiungeva il sordo rumore della loro esplosione. Zaffate di vento arrivavano ad intervalli regolari dalle paludi di sud – ovest, le vere paludi, come lento respirare di una gigantesca creatura che aspetti le sue vittime.
La Morte arrivò presto, quel giorno.
Scivolò, bassa e irreale, su tutto il terreno circostante. Ammantò lance, spade, picche, pugnali, asce. L’acciaio rilucette, carico di nuova energia e avido di bere sangue.
La Morte contemplò, soddisfatta, lo scenario che si profilava sotto i suoi occhi.
La Morte si posò su ogni cosa.
I due eserciti stavano per scontrarsi.

L’atmosfera era talmente carica di magia che scariche elettrice frustavano veloci l’aria, graffiando i timpani dei soldati in attesa. I cavalli fremevano, ed era un’impresa riuscire a mantenere i ranghi. Un diffuso, ovattato tintinnio di metallo pervadeva la zona. Grossi uccelli scuri si erano posati sui pochi tronchi morti, gli artigli affondati nel legno marcio. Parevano quasi sonnacchiosi, così fermi e lontani, ma tutti sapevano che al momento giusto si sarebbero mossi, bramosi di carne fresca.
A questo pensiero, molti rabbrividirono. Non erano poche le storie che circolavano negli accampamenti, la sera, su feriti trovati parecchi giorni dopo la battaglia senza occhi, orecchie o lingua, ancora vivi. I condor di Kahn non uccidono le loro vittime, per avere sempre a disposizione cibo fresco.
Molti rabbrividirono, tranne Naassom. In quell’occasione, alla guida di un esercito di appena ventiduemila uomini, non poteva permettersi mancanze o errori. I rinforzi sarebbero arrivati solo dopo tre giorni. Sapeva bene che quella era una pazzia, ma l’esercito di Sadoc aveva attaccato decisamente prima del previsto. Aveva provato a convincere il re a rimandare la battaglia, magari ingannando il nemico con finte macchine da guerra costruite in tela, ma il Sovrano del Meil era stato inamovibile, e quelli erano i suoi ordini.
Lo scarno esercito del quale era a capo era costituito da cinquemila uomini delle verdi pianure Melliche, arruolati solo poche settimane prima. Protetti da leggeri corsaletti in cuoio e armati in genere solo di una corta e leggera spada, erano forse i più volonterosi, ma sicuramente poco avvezzi alla guerra o abituati alle ristrettezze della vita da campo. Seguivano gli undicimila soldati dell’esercito regolare, che, a dire la verità, non si era mai trovato così sfornito. L’era delle Grandi Guerre era ormai finita da molto tempo, e quelle verdi vallate non avevano mai costituito un problema dal punto di vista militare. Così, l’esercito era andato man mano rimpicciolendosi, sino a diventare poco più di una Guardia Reale. Degli undicimila soldati regolari, si contavano novemila fierissimi Cavalieri, l’Armata degli Invincibili. Le loro cavalcature erano tutte enormi stalloni purosangue catturati al confine nord – occidentale con la catena di Arsh, le alte ed affusolate teste protette da spesse piastre metalliche. Le armature dei loro cavalieri erano altrettanto splendide: pesanti e magnificamente lavorate, ricoprivano interamente i corpi muscolosi. Da uno dei fianchi del cavalli pendevano gli scudi, alti poco meno di due metri e resi, almeno in parte, immuni alla magia dai Maghi e dai chierici di corte. Dall’altro, tintinnavano le lunghe e pesanti spade, temprate, si diceva, per un intero anno nelle fucine di palazzo. I rimanenti duemila soldati regolari erano arcieri, il cui compito era quello di sfittire le fila dell’esercito nemico prima dell’impatto. Magri ed agili, non si curavano di guardare la morte negli occhi. I loro archi, che, secondo le leggende, non potevano essere spezzati, erano di massiccio e pesante legno delle pianure. Un arciere esperto poteva, con un buon tiro, trapassare da parte a parte un’armatura a novecento piedi di distanza. Le rimanenti seimila unità erano mercenari dell’ovest, avidi di bottino, e decisamente noncuranti della causa di Naassom. Erano stati ingaggiati solo due mesi prima, sotto lauto compenso. Fieri e determinati, erano in genere freddi e riservati nei confronti degli ufficiali che impartivano loro ordini, e preferivano restare isolati. Alcuni erano su magri cavalli del deserto, altri a piedi.

Su queste forze avrebbe dovuto basarsi Naassom. Con queste forze avrebbe dovuto sconfiggere sessantamila e più creature, tante quante erano quelle dell’esercito che si stagliava davanti a lui, fremente e minaccioso. A dire il vero pochi erano gli uomini che componevano quella massa informe al comando di Sadoc. Molti, molti di più erano troll delle paludi, nani, demoni di ogni grado e potenza, scintillanti e neri come la notte, selvaggi giganti del nord, mercenari e reietti di ogni genere e provenienza. Ma non era il numero tre volte superiore a spaventare il generale dell’esercito imperiale. Dimenticate entità componevano quell’esercito, oscuri mostri risaliti direttamente dai più bui calderoni dell’inferno, risvegliati e tornati alla carica da epoche passate, dimenticate. Forme più scure del buio di un cimitero, ritagliate dalla notte dei tempi, che ora aspettavano solo di bere le anime dei suoi soldati. Fameliche, gigantesche, apparentemente invulnerabili; una di quelle creature bastava ad annientare una buona decina di uomini. Ne poteva distinguere il tremolio in lontananza, stagliato su di un cielo cremisi. Sarebbero invece dovuti bastare i seicento maghi che avevano lasciato il castello reale solo due settimane prima. Alti e scarni, molti erano appena dietro le prime file degli arcieri, alcuni a proteggere le retrovie in caso di un attacco a sorpresa, altri si erano camuffati e mischiati ai soldati, per prendere di sorpresa alcune di quelle creature.
Naassom socchiuse gli occhi, guardando nella direzione del sole nascente.
Il suo cavallo scalpitò, impaziente.

La nebbia cominciava lentamente a sollevarsi, lasciando distinguere il piatto orizzonte brulicante di picche e vessilli che appariva sempre più nitido. Le stelle svanirono, lentamente, lanciando un’ultima occhiata ai due eserciti in attesa, alle armi affilate, ai soldati immobili, alle paure di uno schieramento e alle sicurezze dell’altro.
Qualche ora dopo la Morte arrivò anche il Silenzio.
Il Silenzio guardò la morte.
La Morte guardò il Silenzio.
Il Silenzio si posò su ogni cosa.

I due eserciti caricarono.


Guido Marzocchi

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