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Tempo di uccidere

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"Tempo di uccidere"
il bruciante pessimismo di Ennio Flaiano

Dopo essermi occupata varie volte di letteratura americana, ho deciso di tornare in Italia per parlare di un autore non abbastanza conosciuto e non abbastanza letto: Ennio Flaiano, giornalista liberale corrosivo e scomodo, noto per la conduzione dello storico settimanale "Il mondo" e per le suoi aforismi, pennellate graffianti che da sole riassumono un’epoca.
Cito a braccio: "Sulla bandiera italiana dovrebbe esserci la scritta: tengo famiglia", "In Italia le uniche cose definitive sono quelle provvisorie", "Ora che tutti sono all’avanguardia, sono rimasto solo io a fare il grosso dell’esercito", "Dopo essersi rivolto all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo, concentrò le sue ricerche sull’infinitamente medio".
Flaiano scrisse un solo vero romanzo, su commissione di Leo Longanesi (altro grande giornalista, altro prolifico autore di battute celebri): "Tempo di uccidere", uscito nel ’47 e vincitore in quell’anno del Premio Strega.
E’ tempo di uccidere per il tranquillo tenente protagonista della storia, come tanti stanco della campagna d’Etiopia che ormai si trascina stancamente alla conclusione, come tanti disincantato e disilluso; è tempo, perché il caso ha deciso così.
Il soldato italiano colpisce infatti accidentalmente, con una pallottola destinata a una bestia feroce, la donna nera bellissima e misteriosa che giace accanto a lui; da quel momento la sua vita sarà trascinata in un folle, assurdo, eppure ineluttabile vortice di avvenimenti.
Mille sospetti affollano la mente dell’uomo, il terrore di essere scoperto e un più grande terrore legato alla condizione della sua amante di una notte, al terribile segreto che essa sembrava nascondere: è un climax di angoscia, un cupo disperdersi della ragione in cui il tenente finisce per mostrare il lato peggiore di sé, la vigliaccheria, l’egoismo, la ferocia.
Il mondo di Flaiano è un mondo allo sbando, regolato dal caso e dal nulla, senza uno scopo e senza una speranza: eppure, resta all’uomo la volontà di esistere, nonostante tutto.
"Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo, non posso lasciare nulla…nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe…" è l’urlo disperato dell’individuo che non accetta la sua condanna.
Pervaso da una tragica ironia, il capolavoro di Flaiano è intenso e sconvolgente, soprattutto per la constatazione finale della comica assurdità del reale – della comica assurdità perfino della disperazione.

Lorenza Ceriati

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