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La terra fredda

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LA TERRA FREDDA

"Siamo sulla terra, la più atroce delle stelle e tra gli uomini, più crudeli delle pietre" (Jean Luc Godard, Masculin Féminin)
Uno dei temi più ricorrenti nei film presentati alla Mostra di Venezia è stato quello del disagio dei più sensibili, quindi i giovani ma anche quegli adulti che ancora provano qualcosa: altro che sesso!
Significativi, al riguardo, due mediometraggi francesi, prodotti dalla sezione cinema del canale televisivo franco-tedesco Arte (non è la Rai), nell’ambito di una serie intitolata Destra/Sinistra (ci saranno anche dei lavori di Erick Zonca1 e J. L. Godard) che intende raccontare la politica oggi in Francia attraverso un approccio di genere (poliziesco, docu-fiction, commedia drammatica). Il punto in comune di questi film televisivi (ma qualcuno uscirà anche nei cinema) è il passaggio attraverso una situazione o un dialogo che evocano le nozioni di destra e sinistra, pur privilegiando un punto di vista soggettivo. La fine delle passioni ideologiche ha penalizzato di più la sinistra (come era logico aspettarsi), che di essa ha bisogno per sopravvivere. La destra no, è più pragmatica e conservatrice, mirando a mantenere uno status quo che la favorisce; oggi può risultare persino più dinamica perché tende invece, con arroganza, ad accentuare le differenze e le disuguaglianze.
Ne Les terres froides di Sébastien Lifshitz (classe 1968) si racconta di un giovane algerino a Grenoble in cerca di padre e di ascesa europea, non come frutto del lavoro ma come cooptazione da parte del ricco e potente, saltando a piè pari lotte e rivendicazioni di diritti, che anzi disprezza.
Inverno, notte, buio, tono e colori freddi caratterizzano una rappresentazione di asciutto realismo di rapporti sociali e di classe.
Il giovane vuole essere riconosciuto dal presunto padre (un industrialotto francese che avrebbe avuto una relazione con la madre del ragazzo, da lui considerata solo una puttana con cui divertirsi), del cui mondo subisce il fascino: si identifica con i suoi interessi, contro i suoi stessi compagni di lavoro, ma viene rifiutato e si vendica, penetrando nella famiglia in maniera "pasoliniana" e colpendone l’orgoglio attraverso lo "smascheramento" del figlio (legittimo) gay.
Nell’altro titolo della serie presentato a Venezia, La voleuse de Saint Lubin di Claire Devers, si ricostruisce un fatto di cronaca con chiarezza brechtiana: nel 1996 una donna francese, sola con due bambine, aveva rubato della carne in alcuni supermercati ("cosa potevo rubare, se non quello che normalmente non riesco a comprare alle mie figlie?"), era stata assolta in primo grado per stato di necessità e poi condannata in appello a risarcire il danno.
Il film indaga due azioni: il furto, appunto, e il voto che la protagonista, che non ha una particolare coscienza politica, aveva dato qualche mese prima a favore del Fronte Nazionale di estrema destra. Due diverse forme di reazione a un’infinità di frustrazioni e di privazioni patite, in un contesto di ristrettezze economiche, certo, ma non di povertà assoluta: la donna aveva un lavoro, seppur a tempo parziale, si era sempre rifiutata di ricevere forme di carità e di indebitarsi troppo; il suo furto in alcuni supermercati, durante il periodo natalizio, ha il sapore di un atto di rottura dell’ordine sociale, di cui la donna riconosce la violenza intrinseca, ma che le ha dato una sensazione di libertà.
Del voto per il Fronte Nazionale, la reale protagonista della vicenda, che alla fine si trova a confronto con l’attrice che l’ha rappresentata sullo schermo, riconosce invece il carattere di rottura del legame di solidarietà tra cittadini della stessa condizione sociale, in quanto sostiene un movimento politico il quale distingue tra francesi e non francesi, piuttosto che tra chi ha bisogno e chi no, non importa quale sia il colore della pelle o la provenienza.
Dall’Argentina arriva invece Mundo grua, opera prima di Pablo Trapero2 (classe 1971), allievo di Fernando Birri (che lo definisce un James Dean con una causa), e vincitore del premio della Settimana internazionale della critica a Venezia.
Il film rende conto, in uno sporco bianco e nero, dello scorrere di 30 anni di storia argentina, ma senza descrizioni realistiche, concentrandosi sul dolore di una condizione operaia adulta in un mondo che la rifiuta sempre di più: Rulo, un 50enne ex bassista in un famoso gruppo rock degli anni 70, cerca di sopravvivere (deve anche mantenere la madre e il figlio 19enne) lavorando come addetto alla manovra delle gru3 in un cantiere, ma ogni volta è costretto a ricominciare daccapo nel cercare di costruirsi un futuro, di lavoro e di affetti. Le gru meccaniche sono come animali giganteschi che in più gridano, simbolo di un progresso da cui invece il protagonista si sta allontanando sempre di più, alla deriva, come tanti altri in questi tempi moderni.


Paolo Baldi


1
Il regista dell’acclamatissimo La vita sognata degli angeli della passata stagione.

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