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Le meraviglie del possibile

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Le meraviglie del possibile

D’un tratto, senza quasi rendercene conto, siamo nel Duemila. Questa data astratta, squisitamente "fantascientifica", questo traguardo misterioso e oscuro dell’immaginario collettivo del Novecento, ora incombe sulle nostre teste, troneggia nei nostri programmi a breve scadenza, nelle nostre rate da pagare, nel nostro piano-ferie.
Molte delle meraviglie sognate dagli scrittori degli anni Cinquanta non si sono avverate: non si vedono ancora autostrade sopraelevate e utilitarie a razzo, né basi umane su Marte e sulla Luna. E molti incubi sono riamasti tali: la sovrappopolazione non costringe la gente ad abitare in stanzini per le scope (come nell’indimenticabile Per piccina che tu sia di J.G Ballard), la natura non è totalmente distrutta (anche se gli uomini fanno del loro meglio per raggiungere questo obiettivo), le città sono abitate e floride, e non ammassi di macerie fumanti all’indomani di una catastrofe nucleare.
Si potrebbe dunque pensare che la science-fiction degli anni d’oro sia ormai superata, che le creazioni di Asimov, Matheson, Clarke, Bradbury, siano degne a malapena di un sorriso divertito, come curiosità archeologiche, profezie antidiluviane che hanno fatto il loro tempo.
Eppure, non è così.
Alla data astrale 1999, la fantascienza "ingenua" degli anni Cinquanta e Sessanta conserva inalterato il suo fascino senza età, la sua carica di sottile angoscia e inquietudine.
Soprattutto il sottogenere "sociale", "antropologico" (le trasformazioni dell’uomo nelle metropoli, la perdita d’identità dell’individuo nella massa, la follia tecnologica…) tocca corde molto sensibili della nostra anima smaliziata.
Le paure dell’uomo non sono cambiate, forse da millenni a questa parte hanno solo assunto nomi diversi, proiettando nella galassia del futuro le ossessioni della mente. Il terrore del "nuovo", del mutamento improvviso, viene tradotto nell’immagine dell’invasione aliena; la consapevolezza di poter perdere la propria autonomia di giudizio, nella metafora del Grande Fratello in 1984 di Orwell (assoluto capolavoro, a mio avviso), o della folla che annichilisce il singolo, mettendo al bando i libri, in Farhenheit 451 di Ray Bradbury.
Ma anche l’antica idea filosofica della verità nascosta dal "velo di Maya" dell’apparenza, della realtà "parallela" alla realtà "ufficiale", ricompare sempre nella fantascienza, sia del passato che di oggi: al cinema esplora questo tema il bellissimo Matrix, nelle sale in questi giorni.
L’uomo non si accontenta del suo striminzito universo, del suo univoco presente: vuole navigare in tutte le "meraviglie del possibile", scavare nei meandri della scienza e in ogni ipotesi del reale, fino ad arrivare al paradosso e all’irreale. Qui sta la bellezza della letteratura fantascientifica, e in particolar modo dei racconti, forme circolari concluse da un’invenzione fulminante, una battuta che riassume più di mille tavole rotonde. Un esempio per tutti: la descrizione del nemico ne La sentinella di Frederic Brown:
"Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, si erano abituati, non ci facevano più caso, ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle di un bianco nauseante, e senza squame".

Le citazioni sono tratte da Le meraviglie del possibile, Antologia della fantascienza, a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero, Einaudi, da Lora di fantascienza, pubblicata sempre da Einaudi, e da Terzo dal Sole, della mitica Urania.

Lorenza Ceriati


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