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Ian Curtis ed i Joy Division

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Ian Curtis ed i Joy Division

Deborah, la vedova di Ian Curtis, ha voluto che sulla lapide del cantante campeggiassero solo cinque parole, il titolo di una delle sue canzoni più note: "Love will tear us apart", l’amore ci farà a pezzi.
L’ossessione per la morte, il disfacimento e la tragedia hanno sempre aleggiato nella musica che Ian scriveva per i suoi Joy Division, eppure nessuno all’epoca seppe (o volle) rendersi conto che temi così lugubri non erano semplicemente parte di un ruolo che Curtis stava divertendosi a recitare ma bensì i suoi veri sentimenti. Quando un ancora adolescente egli andava dichiarando spavaldamente di non voler vivere molto oltre i vent’anni, non stava affatto scherzando. La stessa Deborah, che ne ha tracciato un ritratto nel libro Touching from a Distance (Faber&Faber, 1995), ancora oggi non riesce peraltro a spiegarsi come Ian avesse potuto decidere di sposarsi e diventare padre covando allo stesso tempo l’idea così a lungo accarezzata del suicidio, che prendeva sempre più corpo nella sua mente turbata. Tanti elementi tendevano ad impedire ai suoi conoscenti di pervenire alla piena consapevolezza che egli stesse davvero meditando un gesto così estremo, ad evitare che i loro sospetti e le loro sensazioni si concretizzassero definitivamente; visto a posteriori, tutto sembra esser stato organizzato ad arte da Ian perché nessuno potesse nemmeno cercare di aiutarlo o di salvarlo. Egli aveva programmato la sua fine con sconcertante anticipo e risolutezza, e non avrebbe permesso a nessuno di intromettersi.
Cresciuto idolatrando i grandi eroi tragici del rock, da Jim Morrison a Janis Joplin, e sviluppando un interesse morboso per la sofferenza umana in tutte le sue forme, Curtis non aveva a dire il vero mancato di seminare lungo la propria strada quantomeno il seme del dubbio. Così come nessuno lo avrebbe indicato come un sicuro candidato al suicidio a soli 23 anni, è altrettanto vero che la sua storia personale e la sua attitudine nei confronti della vita non permettessero di descriverlo come un individuo solare e spensierato.
Il suo sogno era quello di incidere un disco, di diventare qualcuno attraverso la musica, ma quello che gli altri immaginavano fosse per lui solo un punto di partenza era in realtà per Ian il traguardo oltre il quale non vi era più alcuna ragione di correre. Smanioso di porsi al centro dell’attenzione, una volta giuntoci non avrebbe però dato modo a nessuno di conoscerlo e capirlo veramente, di sondare in profondità i suoi pensieri. Il suo muto urlo di dolore era affidato alle sue liriche, che però non vennero forse mai giudicate fino in fondo per quello che erano – una straziante autobiografia.
Dopo aver conosciuto un’overdose già in gioventù ed aver poi convissuto per gli ultimi anni della sua breve vita con l’epilessia, Curtis si fermò proprio alla vigilia del tour degli Stati Uniti: un’esperienza che così tanti musicisti inglesi prima di lui avevano vissuto come una specie di eccitante ricreazione, come la scoperta di un mondo fantastico fino ad allora solo ammirato da lontano, era invece per lui una prospettiva dalla quale fuggire. La profonda diversità di Ian qui emerge in modo poco meno che stridente, e d’altra parte è facile anche per il più distratto ascoltatore rendersi conto di quanto poco avesse anche musicalmente da spartire con la scena punk inglese, che era letteralmente esplosa sotto i suoi occhi ma dalla quale i Joy Division si erano presto emancipati. Lungi dal condividere il furore nichilista e distruttivo di cui tante band dell’epoca avevano fatto una bandiera, ed il modo in cui lo esprimevano, egli si sentiva già vecchio: "But I remember when we were young", ricordo quando eravamo giovani, recita il testo di Insight, ed a scriverlo è un ragazzo che sembrerebbe avere tutta una vita davanti a sé, un astro nascente del panorama musicale britannico.
E’ un personaggio difficile e disturbante, Ian Curtis. Fortemente attratto dalle uniformi e dai simboli nazisti e capace di scegliere quale nome del proprio gruppo il termine con cui gli stessi nazisti indicavano la ‘squadra’ di prostitute selezionate tra i prigionieri di guerra per il diletto delle camicie brune; forte di una voce tutt’altro che melodica e piacevole, ma bensì oscura e capace di mettere i brividi, in bilico tra un irritante dilettantismo e la consapevolezza che in realtà non vi fosse alcun bisogno di virtuosismi per trasmettere il disagio che intendeva comunicare; imprevedibile e profondamente lunatico nella vita privata.
La musica dei Joy Division non si può veramente comprendere o apprezzare per quello che è se non si pone attenzione ai testi. Pur convogliando mirabilmente già a livello sonoro le tematiche affrontate dalle liriche di Ian (nella premessa al già citato Touching from a Distance Jon Savage definisce ad esempio Dead Souls "cold as the grave", fredda come la tomba), l’esperienza di ascolto non può dirsi completa prima di aver preso visione delle liriche stesse, non dimentichi di come gli eventi successivi abbiano poi tragicamente mostrato quale fosse la loro effettiva chiave di lettura. Rette da una batteria fredda e irrigidita ma in realtà sempre viva nel suo incedere; sospinte da linee di basso magistralmente in evidenza; completate da interventi chitarristici mai sopra le righe, lucidi e tesi, ed arricchite infine dall’ora dolente ed altrove glaciale cantato di Curtis, le canzoni dei Joy Division non fanno mai trasparire alcun raggio di luce e non si lasciano ascoltare se non di notte od in una giornata cupa e piovosa. E’ una musica introversa, depressiva, a tratti perfino disturbante.
Nei vent’anni fin qui trascorsi dalla fine del loro leader, l’influenza dei Joy Division non si è mai sopita del tutto e si è anzi manifestata nelle maniere più disparate. Dall’attività musicale dei superstiti, fondatori del gruppo New Order, all’inevitabile mitizzazione della figura tragica di Curtis, dalle notizie di giovani spinti dall’ammirazione per lui ad emularne le gesta suicida, alle cover che di brani dei Joy Division hanno offerto altri gruppi come gli ottimi Karma To Burn, la memoria del quartetto inglese e del suo leader in particolare non è stata dispersa.
La disperazione grondante dalla sua musica e dalla sua tragica vita hanno fatto di Ian Curtis un’icona, e non c’è da sorprendersi se la sua figura si sia per questo assicurata un posto nella storia della musica che i soli dati numerici relativi alla sua carriera discografica non giustificherebbero. La sua memoria vivrà ancora a lungo.

Fabrizio Claudio Marcon

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