KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Le Zucche Si Sono Rotte

13 min read

Le Zucche Si Sono Rotte

Fa ancora uno strano effetto parlare al passato degli Smashing Pumpkins, eppure ci si dovrà abituare. La notizia non è più freschissima ma nondimeno rimane difficile accettare che la loro avventura sia ormai conclusa. Dopo aver attraversato lo scorso decennio tra alti (molti) e bassi (meno) i quattro di Chicago hanno pianificato con una buona dose di lucidità anche la propria uscita di scena, evidentemente in modo abbastanza distaccato e sereno da poterla annunciare con anticipo durante un tour ancora in corso, portare quest’ultimo a compimento ed infine dirsi addio. Il momento delle scelte drammatiche e sofferte era stato vissuto piuttosto all’altezza del brusco scioglimento della band durante le session per Siamese Dream e della sua successiva ricomposizione, oppure all’epoca della scomparsa per overdose del tastierista aggiunto Jonathan Melvoin e del conseguente allontanamento di Jimmy Chamberlin per abuso di droghe. La scrittura dell’ultimo capitolo è stata assai meno tumultuosa.
Giacché siamo nella situazione di poter tirare le somme, quale momento migliore allora per riconoscere ai Pumpkins tutti gli onori del caso? Billy Corgan e soci hanno infatti vissuto l’esplosione del grunge e quella successiva del new-punk senza mai perdere la propria identità, rifiutando di piegarsi a facili concessioni alla moda imperante e andando a volte a cercare soluzioni commercialmente "rischiose" ma comunque molto personali. Non a caso la loro musica è stata ricca, quasi debordante di qualcosa che invece fa difetto a tantissimi gruppi di oggi: la personalità. Che poi sia stata soprattutto quella del loro leader, vero e proprio deus ex machina del gruppo, poco importa: il risultato finale non ne risente. Che sia opera degli Smashing Pumpkins o praticamente del solo Billy Corgan, la loro discografia è comunque eccellente: che senso ha quindi andare a sindacare?
Che il chitarrista James Iha, il batterista Jimmy Chamberlin (allontanato dalla band dopo il tour di Mellon Collie And The Infinite Sadness e poi reintegrato per le registrazioni di Machina/The Machines Of God) e la bassista D’Arcy (rimpiazzata solo negli ultimissimi mesi da Melissa Auf der Maur, proveniente dalle Hole di Courtney Love) possano essere considerati quasi esclusivamente come validi collaboratori di Corgan è un’idea non troppo peregrina: quasi tutti i brani prodotti dal gruppo sono opera del leader, la cui straripante personalità musicale è andata concretizzandosi negli anni in una produzione numericamente e qualitativamente molto elevata. Ciò senza voler togliere nulla, beninteso, al valore degli altri elementi del gruppo. Iha è anche titolare di un lavoro solista assai piacevole, anticipazioni del quale si erano potute cogliere anche nei pochi brani da lui firmati per i Pumpkins: belli e piacevoli, ma così differenti dagli altri da potersi individuare già al primo ascolto, come a dire che quanto rimarrà dei Pumpkins e si sarà impresso indelebilmente nella memoria al punto di collegarlo istantaneamente a loro, lo dovremo in fondo al solo Corgan. Troppo determinato, perfezionista, prolifico ed ispirato per non oscurare inevitabilmente chiunque lo avesse accompagnato nell’assalto al mondo del rock che conta.
Formatisi a Chicago, gli Smashing Pumpkins bruciano le tappe: il loro quarto concerto in assoluto li vede già in veste di band di supporto dei Jane’s Addiction, all’epoca il gruppo più fulgido della scena alternativa a stelle e strisce. Non male! La strada per un contratto discografico e l’entrata in sala di registrazione non può che essere breve… Gish (1991), come molti album d’esordio, con il senno di poi può essere definito il più grezzo. Tale aggettivo non va però inteso in senso negativo, quanto semplicemente in contrapposizione alla produzione estremamente raffinata ed elaborata che prenderà a caratterizzare i lavori successivi. E’ un disco a presa rapida ma non per questo banale, ben equilibrato tra episodi più duri (I Am One o Siva) e sonorità dolci (Rhinoceros, Crush, la conclusiva Daydream). C’è tanta psichedelia, ma ancora manca il brano esplosivo capace di trainare l’intero lavoro. Gish nel complesso è molto più uniforme rispetto a parecchio di quello che seguirà, ma è anche ovvio, dal momento che si tratta della loro prima prova sulla distanza di un album; si configura più come esperienza d’ascolto complessiva ed è solo un primo assaggio di quanto i quattro hanno in serbo.
Molti indicano nel successivo Siamese Dream (1993) il capolavoro degli Smashing Pumpkins. Non è una definizione troppo azzardata, dato che qui sfilano alcuni dei brani più incisivi di sempre dei Nostri (Cherub Rock, Today o Disarm, giusto per citare i singoli) e la mediazione tra le tre anime principali del gruppo (hard, psichedelica e melodica) riesce ancor più efficace, grazie anche alla mediazione della sempre riconoscibile voce di Corgan ed alla tremenda efficacia del suo song-writing. Emerge prepotentemente il gusto per la ballata malinconica, talvolta persino pre-depressiva, talvolta annegata in rabbiose distorsioni chitarristiche ma più spesso affidata ad arrangiamenti mai lasciati al caso. Difficile indicare un brano poco convincente, a testimonianza di come Corgan sia riuscito da subito a coniugare quantità e qualità: il pubblico se ne accorge, e Siamese Dream vende circa quattro milioni di copie, proiettando il gruppo al centro dell’attenzione internazionale e rendendolo uno dei più rappresentativi del disagio esistenziale della generazione da poco orfana di Kurt Cobain. Dai Nirvana i Pumpkins ereditano il testimone, non tanto forse dal punto di vista prettamente musicale quanto piuttosto per quello che vengono a rappresentare. Se però Cobain urlava a pieni polmoni la sua rabbia, Corgan narra piuttosto il suo malessere, e ne risente anche la rispettiva produzione musicale: nichilista, tempestosa e furente quella dei Nirvana; composita, autoindulgente e sfaccettata quella dei Pumpkins.
Il successivo sforzo discografico del gruppo è preceduto dall’uscita di Pisces Iscariot (1994), che raccoglie alcuni b-sides fino ad allora disponibili solo sui numerosi singoli pubblicati dai Pumpkins. Come già si è detto, Corgan è autore a tal punto prolifico da potersi permettere uscite di questo genere garantendone però nel contempo anche la qualità: i suoi pezzi di secondo piano infatti non sono quasi mai semplici riempitivi, e molti di loro non sfigurerebbero sugli album ufficiali. Pisces Iscariot allinea, ad esempio, una stupenda ballata crepuscolare quale Obscured, una tesa Frail And Bedazzled, una pacata La Dolly Vita ed ha anche il pregio di cominciare a mettere in luce le doti compositive del chitarrista James Iha, a cui dobbiamo la graziosa ballata Blew Away.
A questo punto i tempi sono maturi per Mellon Collie And The Infinite Sadness (1995), che ad opinione di chi scrive riesce ad ogni modo a far ombra perfino all’illustre predecessore. E’ un album unico, di quelli che il tempo non riuscirà a sminuire, e la sua chiave sta soprattutto nel fatto stesso di essere un doppio: contiene una tale mole di materiale, quasi tutto di livello elevatissimo, da lasciare quasi senza fiato. E’ proprio e prima di tutto quantitativamente che Mellon Collie And The Infinite Sadness si stacca dai lavori precedenti: se può affiorare il dubbio che dietro alla grande varietà di temi musicali affrontati (dallo strumentale pianistico d’apertura alla violentissima Tales Of A Scorched Earth, dall’ossessiva e distorta Love all’acustica Stumbleine, dalla rabbiosa Bullet With Butterfly Wings alle ballate come Galapogos o By Starlight: e si potrebbe continuare a lungo…) si nascondano tentazioni commerciali, è però innegabile che l’esito finale sia un lavoro sorprendentemente coerente e nei limiti del possibile addirittura uniforme, pur nella sua varietà. La produzione poi è sontuosa, talvolta ridondante ma sempre innegabilmente ricca ed accurata. Corgan sembra in preda ad una trance produttiva e sforna brani senza pausa, al punto che la soluzione del doppio album lo costringerà comunque a riversare decine di outtakes nei singoli che lo accompagneranno. L’album che ne risulta è sfarzoso e non lascia nessun angolo oscuro: tutta l’anima dei Pumpkins è svelata in ogni suo recondito recesso, dai sussurri alle grida isteriche; tutto quanto in Siamese Dream veniva più ragionevolmente sintetizzato, qui assume piuttosto l’aspetto di uno sfogo, di una seduta psicanalitica, della rottura di una diga. L’urgenza quasi frenetica di comunicare lo rende un disco pericolosamente ambizioso, discontinuo ed altalenante se analizziamo in profondità il valore intrinseco dei singoli brani; ma la genialità del suo autore lo rende nondimeno epocale. Corgan ha vuotato i cassetti, e da qui in avanti niente potrà più essere come prima. Quello che c’era da dire è stato detto… o forse non del tutto, visto che la prolificità di Corgan lo ha nuovamente costretto a disseminare di inediti i cinque singoli estratti dall’album. Dopo un anno i Pumpkins danno perciò alle stampe The Aeroplane Flies High (1996), che racchiude in un elegante cofanetto bianco e nero i suddetti cinque singoli, uno dei quali arricchito da cinque cover nuove di zecca: sono in tutto 33 brani, che sommati ai 28 di Mellon Collie And The Infinite Sadness portano addirittura a 61 il risultato finale delle straordinarie sessioni che hanno li hanno originati. Ancora una volta qualità e quantità vanno a braccetto, e fanno credere che la selezione dei pezzi da includere nel fortunato doppio sia stata piuttosto difficile. La mia impressione è che si debba considerare Mellon Collie And The Infinite Sadness e The Aeroplane Flies High come un lavoro unico, ovvero una lunghissima impresa musicale autobiografica che pone fine ad una fase esaltante della carriera di Billy Corgan, chiude i conti con il passato e dopo averlo lucidato per bene si appresta a riporlo in bacheca per guardare ad un futuro inevitabilmente diverso. Oltre non si può andare, la strada fin qui percorsa è finita: urge una nuova direzione da imboccare.
Con Adore (1998) infatti i Pumpkins cambiano decisamente spartito: rimpiazzato il rinnegato Chamberlin con una drum-machine, Corgan accantona parte delle onnipresenti chitarre e punta il timone verso atmosfere dark-pop anni ottanta, affiancando alle classiche ballate dolenti ed irresistibili, ormai un suo marchio di fabbrica, pezzi come Appels+Oranjes che non sfigurerebbero in un lavoro dei Depeche Mode (di cui tra l’altro, per inciso, è grande ammiratore). Ne esce un album bello ma un po’ cupo, in cui proprio la drum-machine (e in generale la strumentazione elettronica che qui è impiegata a piene mani) contribuisce a creare l’atmosfera giusta in certi brani ma ne infiacchisce altri, in cui sembra francamente fuori luogo. Chiuso un primo capitolo della propria vita musicale, i Pumpkins non potevano che rinnovarsi, anche a costo di spiazzare i fans e di avventurarsi in territori mai battuti prima e pertanto forieri di sorprese e difficoltà. Tutto questo si sente eccome, in Adore. Tante porte vengono socchiuse, tante strade vengono tentate, tanti disegni vengono abbozzati ma niente appare definitivo: tutto rimane buio e misterioso, come le atmosfere plumbee che avvolgono quest’album di incerta e dolorosa transizione.
Nello stesso anno esce tra l’altro anche Let It Come Down (1998), il primo album solista di un membro dei Pumpkins: a rendersene autore è James Iha, la cui personalità musicale era rimasta fin lì schiacciata da quella del leader ed aveva avuto solo poche occasioni di esprimersi. Iha si rivela autore molto garbato, a suo agio in atmosfere sfumate tra il folk ed il country, mai sopra le righe e molto morbide. L’album mostra tutta la passione del proprio autore per un gruppo come i Byrds e le loro armonie: privo di spigoli, non entrerà probabilmente nella storia del rock ma testimonia di una più che discreta vena compositiva. Il confronto con quanto i Pumpkins stanno facendo nel frattempo è comunque stridente, e sottolinea ancora (se ve ne fosse bisogno) che la direzione artistica del gruppo è ben salda in altre mani.
Machina/The Machines Of God (2000) sarebbe dovuto rimanere l’ultimo lavoro del gruppo. Lo scarso riscontro commerciale di Adore sembra nonostante tutto aver lasciato il segno su Billy Corgan che, invece di proseguire a passo spedito sul sentiero che aveva scelto, è esitante, tentenna, ed alla fine prepara un album che in parte consolida i pochi passi già fatti ma in parte sa di rassicurante eppur involutiva restaurazione. Per chi dopotutto è cresciuto all’ombra del rock degli anni settanta, una sterzata definitiva verso l’elettronica non poteva essere così facile ne’ così immediata: Corgan non fa mistero della sua predilezione per artisti quali Aphex Twin, Roni Size o Nine Inch Nails ma non arriva a ripercorrerne i passi. Machina/The Machines Of God potrebbe pertanto configurarsi quale mediazione tra i vecchi Pumpkins e quelli tutti presi dal tentativo di reinventare il rock per il nuovo millennio gettando un ponte alla musica elettronica ed ai ritmi tecnologici. La sfida però non viene raccolta fino in fondo: sia nel senso gli esiti non sono tali da far gridare al miracolo, e non a caso le cose migliori dell’album sono quelle che meno si discostano dalle atmosfere dei tempi d’oro; sia perché da lì a poco il gruppo si scioglierà, forse avvertendo il peso eccessivo di aver confezionato due album di transizione consecutivi.
Mentre il Sacred And Profane Tour volge al termine e l’orologio batte gli ultimi rintocchi, i chicagoani regalano ai fans un ultima uscita dal titolo Machina II – The Friends & Enemies Of Modern Music (2000): 25 copie su vinile, le uniche stampate, vengono consegnate ad altrettanti fortunati che hanno il compito di farle circolare via internet tra il vasto fandom pumpkiniano. Si tratta però di un lavoro molto discontinuo e al limite anche discutibile, che affianca a brani inediti versioni alternative di pezzi già conosciuti, ma che dimostra quantomeno che la vena compositiva di Corgan, pur attraverso tutte le recenti vicissitudini vissute dal gruppo, si è tutt’altro che inaridita. Frutto delle stesse sessions che hanno originato l’album precedente, Machina II – The Friends & Enemies Of Modern Music è una specie di raccolta di ipotetici b-sides. Radunando brani che per una ragione o per l’altra non hanno trovato spazio sul predecessore, ne’ sfogo sui singoli, è inevitabilmente caratterizzato da una qualità non eccelsa: è pur vero che gli ‘scarti’ dei Pumpkins valgono i brani migliori di parecchi altri gruppi contemporanei, ma ormai lo schema comincia a mostrare la corda. Il passato è diventato troppo ingombrante e nemmeno Corgan riesce nell’impresa di riattualizzarlo senza prestare il fianco a scomodi paragoni, avendo peraltro abbandonato il proposito di dimenticarlo del tutto. La consapevolezza che continuare a produrre pallide copie della gloria passata non sarebbe consono al nome dei Pumpkins può essere stata proprio la ragione principale per separarsi, appena prima che la loro musica si facesse stanca routine priva di una direzione precisa da perseguire.
Come sintetizzare dunque un decennio di Smashing Pumpkins?
Credo che vada loro riconosciuto di essere stata una delle tre-quattro band più rappresentative del rock degli anni ’90. Il decennio ormai archiviato potrebbe essere ricordato per sommi capi citando il grunge dei Nirvana, il brit-pop degli Oasis e appunto i Pumpkins (senza dimenticare lo sviluppo del crossover, per il quale però è più difficile individuare un solo gruppo-simbolo anche e soprattutto per la evidente frammentarietà del genere stesso): fenomeni diversi soprattutto per caratura e durata, accomunati però dal vasto riscontro di pubblico e dall’aver indicato strade poi ampiamente battute. In realtà quest’ultima caratterizzazione è un poco estranea a Corgan e compagni, dato che, se non è difficile indicare un buon numero di gruppi quasi totalmente debitori all’ispirazione di Kurt Cobain o dei fratelli Gallagher, più arduo è individuarne altri veramente riconducibili agli Smashing. Troppo caratteristici, troppo legati alla personalità musicale irripetibile di Corgan per poter essere imitati a mani basse: tanti (ma sia lecito dubitarne…) i gruppi che avrebbero forse potuto scrivere Bullet With Butterfly Wings o Today o Ava Adore, nessuno che però le avrebbe ideate tutte e tre ed interpretate con uguale credibilità ed efficacia.
Gli Smashing Pumpkins si propongono in un certo senso come una summa dello stato del rock di fine millennio, di cui hanno raccolto e rielaborato in modo pregevole ed originale esperienze e sensazioni molteplici, non temendo di andare a cercare situazioni alternative in cui cristallizzare la propria ispirazione. Se è vero che nulla di assolutamente nuovo si possa ancora scrivere in ambito rock, si può concedere loro di esserci almeno andati vicino. Molto più duttili dei già citati Nirvana e Oasis (non me ne si voglia, anche perché mi pare evidente e comunque non è di per sé una considerazione di merito…), hanno incarnato lo spirito di una generazione pessimista e senza direzione soprattutto nel periodo di Mellon Collie And The Infinite Sadness, quando Corgan sintetizzava efficacemente il suo messaggio con la poi inflazionata maglietta siglata "Zero". Orgogliosi e mai dimentichi delle proprie radici, i Pumpkins però hanno saputo rivitalizzarle e farne nascere un albero vivo e vitale: nonostante non abbiano mai nascosto i propri punti di riferimento, nessuno dei loro brani arriva a far gridare al plagio di questo o quel gruppo.
Se proprio vogliamo trovare loro un difetto a tutti i costi, giudico il solo appunto che si possa muovere così strettamente legato alla loro grandezza da potersi addirittura ribaltare ed interpretare come una sorta di complimento. Mi spiego: è sicuramente accettabile la tesi che gli ultimi anni della loro carriera abbiano riservato ai fans più delusioni che non soddisfazioni, ma questo si deve solo e semplicemente al fatto che i Pumpkins hanno avuto la sfortuna, peraltro comune a moltissimi altri artisti, di toccare l’apice della propria creatività ben prima di abbandonare le scene. Una volta ascoltata la formidabile coppia formata da Siamese Dream e Mellon Collie And The Infinite Sadness, qualunque loro successivo lavoro si sarebbe dovuto confrontare in modo altrettanto improbo con tali predecessori, troppo belli e troppo difficilmente perfettibili da rappresentare un’onesta pietra di paragone per gli album a venire. Agli Smashing Pumpkins non è stato concesso di prodursi in una salita progressiva e continua, dal primo all’ultimo gradino, e allora una volta raggiunta anticipatamente la fine della scala non hanno avuto altro da fare che cominciare malinconicamente a ridiscenderla: accontentiamoci che lo abbiano fatto con dignità e compostezza, senza inciampare ne’ regalarci ignobili cadute.
Come sempre in questi casi, un giudizio di merito sul gruppo è altamente opinabile e forse neanche indispensabile. Indiscutibile però è il fatto che con i Pumpkins ci si debba e dovrà confrontare nel tracciare da qui in poi le nuove e più aggiornate storie del rock. E per inciso, rimane difficile che almeno Billy Corgan non senta tra qualche tempo l’esigenza di tornare a fare musica, come solista o alla guida di un gruppo. Se possiamo magari credere a James Iha che ha già dichiarato di voler lasciare il mondo della musica, ci sia consentito di dubitare che Corgan riesca a mantenere fede ad un simile proposito…

Fabrizio Claudio Marcon

Commenta