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Breve saggio di Meccanica Quantistica – III

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Breve saggio di Meccanica Quantistica
Terza Parte
Dualità onda – particella

Abbiamo già visto come la funzione d’onda di Schrödinger stabilisca un rapporto stretto fra la materia classicamente intesa e la sua forma ondulatoria. Vediamo ora qualcosa di più a riguardo.
Ogni oggetto, dice Schrödinger, può essere rappresentato anche in termini di un’onda di probabilità: possiamo quindi individuarlo (o tentare di farlo) tramite coordinate spazio-temporali precise oppure affidarci alla stima probabilistica della sua posizione. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle particelle elementari, quando la descrizione ondulatoria è l’unica a dar conto di alcuni fenomeni peculiari che non potrebbero essere spiegati alla luce delle sole teorie corpuscolari classiche: nel caso di oggetti massicci invece la descrizione ondulatoria è del tutto priva di praticità, come l’esperienza quotidiana permette facilmente di dedurre.
L’esperimento più noto a questo proposito è quello delle figure d’interferenza. Consideriamo un apparecchio che proietti un fascio di fotoni (le particelle che ‘compongono’ la luce e che trasmettono gli impulsi ottici tramite i quali possiamo vedere il mondo che ci circonda) verso una parete, e interponiamo fra questi due oggetti un foglio opaco sul quale praticheremo due aperture. Se attiviamo la macchina e contemporaneamente tappiamo il foro di sinistra, otteniamo sulla parete una zona illuminata in corrispondenza del foro di destra, ovvero l’unico rimasto aperto; ripetendo l’esperimento a fori invertiti la zona illuminata è, come facilmente prevedibile, quella in corrispondenza del foro di sinistra. Fino a qui tutto sembra procedere senza sorprese. Il passo successivo imporrebbe di pensare che, lasciando aperti entrambi i fori, la figura luminosa sulla parete sia data ne’ più ne’ meno che della sovrapposizione delle due precedenti: ci aspetteremmo quindi di vedere due zone illuminate, corrispondenti ai due buchi attraverso i quali il fascio luminoso riesce a passare. Con stupore dobbiamo invece constatare che le cose non stanno così: il fascio di luce produce infatti in questo caso una cosiddetta figura d’interferenza, ovvero un susseguirsi di fasce buie e fasce illuminate lungo tutta la parete, e non solo in corrispondenza dei due forellini. Come è possibile?
Se consideriamo la luce come un fascio di corpuscoli, i fotoni, questo risultato chiaramente non sta in piedi: il singolo fotone può passare solo da una delle due fessure, quindi a logica dovrebbe andare a colpire la parete retrostante solo in una delle due zone possibili. Se però analizziamo la situazione forti della teoria ondulatoria, riusciamo a dare un senso all’esperimento. Il fascio unico si scompone in due componenti in corrispondenza dei due forellini, ed ognuna delle due componenti viene deviata dal passaggio attraverso i singoli fori: ognuna porterà il proprio ‘contributo luminoso’ fino alla parete, che sarà caratterizzata da una luminosità più intensa laddove i due fasci distinti arrivino in sincrono (in fase, per utilizzare la terminologia corretta) e pertanto vadano a sommarsi l’un l’altro, mentre risulterà buia dove uno dei fasci giunga controfase rispetto all’altro e quindi i due contributi, uguali ma opposti, finiscano per annullarsi.
L’esperimento dimostra che abbiamo bisogno di entrambe le teorie a nostra disposizione per avere un quadro completo della situazione: quella corpuscolare ci consente infatti di spiegare il risultato ottenuto con una delle due fessure occluse, mentre quella ondulatoria permette di capire cosa accade quando decidiamo di lasciare liberi entrambi i passaggi. Non ha perciò senso argomentare su quale delle due sia giusta e poi scartare l’altra: si tratta infatti di teorie complementari. Questo termine è ricorrente in meccanica quantistica, e testimonia la già citata impossibilità di pervenire ad una conoscenza completa e definitiva del sistema preso in esame: per sottolineare alcune proprietà dobbiamo per forza privarci della possibilità di evidenziarne altre. Vediamo ora come in certi casi il risultato di esperimenti e misurazioni in tal senso sia determinato proprio dalla nostra scelta in merito a quale proprietà indagare.
Alcuni anni dopo la prima effettuazione dell’esperimento sopra citato, il geniale fisico Richard Feynman evidenziò un altro suo aspetto ancor più bizzarro. Lavorando non più con fasci luminosi ma con singoli fotoni, egli arrivò a concludere che le natura ondulatoria non emerge solo nel primo caso ma anche nel secondo: anche il singolo fotone, in poche parole, è allo stesso tempo una particella ed un’onda. Ma c’è di più: in quanto onda (e qui cominciamo a vedere quanto la meccanica quantistica richieda di lasciare alle spalle il senso comune per essere almeno vagamente compresa), il singolo fotone di fronte alle due aperture del pannello non sceglie ne’ una ne’ l’altra, bensì entrambe. E’ bene comprendere che questo non significa che noi non possiamo definire con precisione quale delle due esso abbia effettivamente imboccato, ma bensì che a tutti gli effetti esso imbocca per davvero tutte e due allo stesso tempo: trasponendo la considerazione in linguaggio quantistico, il fotone occupa tutti gli stati possibili e permessi allo stesso tempo. Solo al momento della nostra osservazione, disturbato dall’analisi dei nostri rilevatori (ad esempio un microscopio), ci fornisce una risposta precisa sulla propria posizione: ma questo accade solo perché noi, con la nostra intrusione osservativa, lo abbiamo costretto a ‘scegliere’ uno stato preciso tra quelli a sua disposizione, ovvero abbiamo fatto collassare la sua funzione d’onda.
Per molti risulta difficile accettare il fatto che precedentemente all’osservazione il fotone davvero stazionasse in tutti gli stati contemporaneamente: ci si illude di afferrare il senso del ragionamento immaginando che sia solo l’inettitudine nostra e dei sistemi di misurazione a renderci impossibile la determinazione della sua posizione, ma che il fotone in realtà occupi sempre e solo uno stato. Sfortunatamente la meccanica quantistica, tanto più nella sua interpretazione radicale proposta dalla cosiddetta "scuola di Copenhagen" facente riferimento a Bohr, non dice affatto questo.
La sovrapposizione degli stati è alla base della teoria, ed il fatto che essa ci risulti così ostica è dovuta solo al fatto che non ne abbiamo alcuna esperienza quotidiana. L’indeterminazione quantistica, che porta il fotone ad assumere tutte le configurazioni permesse, non ha infatti alcun valore pratico per oggetti più massicci. Non riusciremo mai a vedere l’onda relativa al nostro corpo, che continueremo sempre a percepire come un solido: in termini molto piatti ma forse esplicativi, potremmo dire che la somma delle indeterminazioni proprie di tutte le particelle che lo compongono finisce per annullarsi, permettendoci così di descriverlo in termini del tutto classici (dove con questo vocabolo intendo riferirmi alla fisica newtoniana) invece che quantistici. Se il nostro mondo di tutti i giorni fosse della stessa scala di grandezza delle particelle elementari, questi fenomeni farebbero parte della nostra esperienza quotidiana e la nostra reazione di fronte ad essi non sarebbe affatto di sorpresa o di sconcerto.

Continua…

Fabrizio Claudio Marcon

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