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Novembermoon

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Novembermoon

La luce traspariva ancora, bianca. La glaciale distesa onirica accanto al bosco si fondeva col cielo, anche là, dove il Leviatano giace in una tomba di cristallo blu. La foresta, nera, scheletrica, implorava il paradiso. Non una foglia, non una macchia di neve, sui rami. Ossidiana.
Gli uccelli, se ce n’erano, se ne stavano lontani da là, come chiunque altro potesse sentire il proprio sangue scorrere nelle vene. Se la solitudine è un posto, non ci sono dubbi su dove trovarla. Il silenzio risuonava alto e Augustus udiva solo i suoi passi crepitanti sui fiocchi e il leggero sbatacchiare del pastrano di pelle nera sui suoi fianchi. Era il terzo giorno che camminava, seguendo con lo sguardo vacuo e torvo il limitare. Non si ricordava, o non voleva ricordare, perché fosse là e cosa gli impedisse di tornare indietro [ma dove? forse stava già tornando indietro e allora, tornando indietro, sarebbe andato avanti… era meglio continuare!].
I suoi passi continuavano a scricchiolare, sollevando soffici spruzzi albini, che scivolavano dalle falde della giacca. Sapeva di lasciare delle orme visibili, ma non viste, che il vento leggero spazzava e cancellava [è triste poter vedere che il tempo cancella anche quel poco che resta di tuo, che l’oblio polverizza tutto quanto cerchi di consegnare ai posteri, e il fallimento]. Noia e paranoia. Un vento di pensieri sferzava il suo cervello… [il fumo… il fuoco… la morte… la vita… il sole che muore… l’apparenza… il sole che nasce… il sole che uccide…] La sua mente intorpidita si schiarì repentinamente quando scorse quel sentiero di terra arida, che si dipartiva dalla piana e scompariva nell’amplesso degli alberi. Fosse allucinato, fosse sicuro di sé, non esitò ad imboccarlo e ad unirsi alla cinerea verzura [stava tornando a casa?]. Presto si lasciò alle spalle il velo e continuò a seguire la sinuosa stradina, frusciando e graffiandosi, sperando e temendo [e temendosi…]. Il sottobosco era pressoché inesistente, ma, nonostante tutto ciò, non era possibile vedere lontano, poiché i fusti erano troppo vicini e la loro disposizione troppo irregolare. Aveva quasi sempre avuto fiducia nelle sue decisioni, anche quando… [lontano dal nuovo sole, la vita, la morte, la vita che dà la morte, la civiltà…] Giunse la notte e gli scheletri neri si unirono all’aria senza stelle.
Decise, quindi, di sedersi dov’era e di aspettare la luce, che sarebbe arrivata forse un’altra volta… Meditò… Dove stava andando? Dove stava andando l’umanità? Aldilà del nero sarebbe tornato il bianco? Non mangiava da un po’ e iniziava a preoccuparsi di doversi preoccupare ogni minuto di più. Pensava che, d’altra parte, prima o poi la morte ci coglie e l’importante è esser sempre pronti ad affrontarla [stava andando incontro alla fine? Se la luce potesse prenderci…].
La luce s’insinuò un giorno ancora e Augustus riprese la sua marcia verso l’ignoto [verso l’infinito? verso la fine? verso l’inizio? verso il nulla?]. Un altro dì in quella foresta.
Camminava. Zigzagava. Cadde. La bocca piena di terriccio e sangue, che espettorò fuori, tossendo.
Si rialzò. Appoggiandosi con una mano ad un albero, sentì una dolorosa fitta trafiggerlo inesorabile e con i denti strappò fuori della ferita la scheggia pulsante e la sputò via. Guardò la pianta. V’era un’incisione nella corteccia: "FOLLOW YOUR OWN PATH". Riprese a gir. Ricadde.
Perse i sensi. Rinvenne. Si rialzò in ginocchio e, scossa la testa e gli abiti, guardo la base dell’albero accanto a lui. Era stata graffiata un’altra frase: "MEMENTO MORI". Si alzò in piedi e, guardando fisso dinanzi a sé, ricominciò la marcia. Ma non cadde più. Alberi. Alberi. Alberi.
La claustrofobia l’assaliva [ma aveva mai sofferto di claustrofobia?]. Nausea e stanchezza affondavano lentamente gli artigli nella sua testa e la voglia di urlare era tanta. Ma chi l’avrebbe sentito? [C’era chi?] Meno alberi. Più luce. Meno alberi. Una radura. Una pupilla bianca al centro d’un occhio nero senza iride. In mezzo al bianco e tetro cerchio, giaceva una capanna, nera, degli stessi alberi del bosco. Non si levava il pennacchio di fumo dal camino sbrecciato, né potevano scorgersi segni di vita al suo interno. Le finestre. Poche. Impolverate.
Oscure. Davanti non si scorgevano orme, né passate, né recenti. Desolazione. In lontananza crepitava un tuono, che, piano piano, inesorabile, saliva. Saliva. Su un lato della casa, arrugginiva in pace una triste carrozzina. Le mancava una ruota. Il telaio di acciaio era ormai opaco e butterato, di macchioline. Il tessuto, invece, era scuro, uniforme, come se la luce lo rifiutasse e le intemperie non lo consumassero. Il bordo superiore era orlato di candido pizzo ed era scucito nel punto in cui si ricongiungeva e pendeva per quattro o cinque centimetri, in balia del vento. Il filo, che prima l’aveva tenuto cucito, fluttuava sotto di questo per altri cinque o sei centimetri. L’ombra risplendeva al suo interno. La ruota di gomma bianca mancante dormiva proprio lì. Distolto lo sguardo da quell’oggetto occulto ed occultato, tornò nuovamente davanti
alla casupola. Le uniche orme che poteva vedere erano le sue. La porta. In legno. Nera. Chiusa.
La sfondò con le sue ultime forze. Tra le schegge di legno, entrò. Buio. Aspettò un attimo che i suoi occhi si abituassero alla semioscurità. Si trovava in una sorta di sala, spartanamente arredata. Una lunga panca lungo tutto il muro a destra. Una cassapanca lungo il muro antistante.
Un tavolaccio al centro. Senza sedie. I muri spogli. Stirò le pesanti tende in velluto nero che oscuravano la stanza. La luce fece il suo timido ingresso. Si accorse allora del sottile strato di polvere che velava malinconicamente tutto. Nel muro di fronte a lui si apriva un’altra porta.
In legno. Nera. L’aprì. Un’altra stanza. Circolare. Una botola nel soffitto. Aperta. Il cielo la attraversava. La luce [La luna?]. A terra giaceva un nero cumulo. Di cosa? [Era lui? era qualcun che conosceva? era il futuro? il passato?] La cosa vibrò, si scosse leggermente, come se un lieve tremito convulso la attraversasse, gli ridesse vita [o morte…]. Si sollevò. Era alta quanto lui. Si voltò, avvertendo la sua presenza e sollevò le palpebre. Le pupille. Nere. Le cercò. Non le trovò. Gli occhi. Grandi. Bianchi. Completamente bianchi. Augustus non riuscì a sostenere più a lungo quello sguardo cieco. Il collo dell’uomo che gli stava innanzi si protendeva verso di lui, uscendo incoerentemente dal centro del petto. Le vene pulsavano leggermente [quel collo… quegli occhi…]. In quell’istante ricordò tutto. Tornò in volo celebrale nel laboratorio dove era nato cresciuto morto: l’esperimento… questo piccolo sole nel contenitore… luce… caldo… l’ENERGIA… l’errore… la distrazione… la distruzione… quel gran sole che si spegne… [la luce visibile non è più ed è vecchia] la condanna… la punizione… l’isolamento… il bosco… il sentiero… il sole che dà la vita che dà la morte… Il trauma fu tanto grande quanto inevitabile. Gli atomi che componevano le mortali spoglie di Augustus iniziarono a rompere le proprie strutture, a compattarsi e unirsi stretti stretti in mortali abbracci. La densità salì inesorabilmente, mentre il volume si riduceva irreversibilmente. Le cariche si annullavano istantaneamente e così i legami. Il processo fu molto complesso, ma altrettanto rapido. Poco dopo, un buco nero grande quanto la capocchia di uno spillo si era formato al centro di quella casupola in mezzo al bosco. Ed iniziò a risucchiar, a risucchiar, a risucchiar… Questa è la fine della storia. E della storia?.


Luca Busani

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