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The Fractured Music Archive

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The Fractured Music Archive

Il senso del progetto denominato Fractured Music Archive può essere efficacemente riassunto da una citazione contenuta nel booklet del secondo volume: "reminding us what pop music is and can be", farci ricordare che cosa la musica pop sia e possa essere. Obiettivo che viene perseguito per mezzo della riproposizione di due testimonianze live di una della band più significative tra quelle che calcarono le scene al termine degli anni ’70, i Joy Division. Gruppo di culto ma invero (o forse proprio perché) mai arriso alla notorietà universale, il quartetto di Manchester ebbe vita breve ed intensa e rappresentò una delle prime istanze di superamento del punk, al quale fece seguito a brevissima distanza cronologica. Dal punk stesso prese in effetti le mosse, per puntare poi il timone verso scenari musicali diversi e finendo per lasciare un’eredità pesante: eredità raccolta alla morte del leader Ian Curtis dai membri superstiti che, ribattezzatisi New Order, avrebbero poi completato negli anni a venire la virata verso il pop vero e proprio.
Come annuncia lo stesso booklet già citato precedentemente, il Fractured Music Archive è una "series of two": due album, usciti nel 1999 e nel 2001, contenenti rispettivamente la registrazione di uno spettacolo tenuto a Preston (28 febbraio 1980) e di uno che ebbe luogo a Parigi (18 dicembre 1979), quest’ultimo arricchito da brani tratti da successivi show ad Amsterdam (11 gennaio 1980) ed Eindhoven (18 gennaio 1980). Balza subito all’occhio il fatto che tutto il materiale provenga in sostanza da un arco temporale di soli tre mesi, a testimonianza della rapidità con cui bruciò e si consumò l’esperienza artistica dei Joy Division: un gruppo del quale non ci è dato studiare l’evoluzione nel corso dei decenni o degli anni, ma tutt’al più dei mesi.
Chi già conosce la band inglese sa che, stante la sua breve stagione creativa, il materiale licenziato non fu moltissimo: solo due album veri e propri, Unknown Pleasure e Closer, affiancati poi da raccolte di vario genere e diverso valore uscite postume nel corso degli anni. Questa circostanza ha fatto sì che il collezionista della band si possa trovare in casa, anche limitandosi all’acquisto del solo materiale ufficiale, parecchie versioni solo lievemente differenti l’una dall’altra dei non numerosissimi brani prodotti dal gruppo: penso ad esempio a 24 Hours, Transmission o Love Will Tear Us Apart, esempi dei quali sono presenti su ben più di un’uscita. Da questo punto di vista si potrebbero forse avanzare dubbi sull’effettiva necessità di ulteriori registrazioni dal vivo dei medesimi brani; a maggior ragione se si considera che nessuno fra i pezzi dai Joy Division si avvaleva di particolari virtuosismi strumentali, e che pertanto le esecuzioni live sono talvolta quasi indistinguibili da quelle di studio. Manca inoltre la possibilità di apprezzare nell’interpretazione dal vivo una eventuale evoluzione del brano nel tempo: cosa che al contrario ha reso affascinanti ed imprescindibili le testimonianze dei concerti di band quali Led Zeppelin o Rolling Stones, in particolare quando tali gruppi ripropongono in versioni aggiornate brani storici della propria carriera. Visti in quest’ottica, i live dei Joy Division prendono piuttosto la forma di greatest hits suonati sul palco, con tutto ciò che ne consegue per l’appetibilità da parte del pubblico.
In ultimo comunque la conoscenza di una band non può mai prescindere da un’analisi attenta dei suoi concerti: questo è il motivo per cui, nonostante tutto, il progetto Fractured Music Archive rende un servizio importante ai fans del quartetto. Aggiungendosi alle registrazioni dal vivo disseminate qua e là nella discografia postuma, ed alle BBC Sessions pubblicate poco tempo fa, aiuta infatti a venti anni di distanza a ricostruire l’immagine e la personalità musicale dei Joy Division. Proprio nell’esecuzione live ritroviamo, se possibile ulteriormente amplificati, lo stesso senso di disagio e la ruvidezza presente nelle registrazioni di studio. Per quanto discutibile dal punto di vista dell’ascoltatore medio, tanto più in un’epoca dominata da suoni levigati ed asperità opportunamente smussate, la stessa scelta della data di Preston è altamente significativa: a tratti inesorabilmente rovinato da inconvenienti alla strumentazione, il concerto in questione comunica per questo ancor più fedelmente il senso di frustrazione e la claustrofobia tipiche della musica di Ian Curtis.
E’ doveroso a questo punto ricordare che la registrazione di Preston presenta una qualità sonora non dissimile da quella di un comune bootleg e quella parigina, pur migliore, non è comunque paragonabile alla media dei live attuali. Ma dopotutto quella dei Joy Division non è in ogni caso musica di facile ascolto, e non lo sarebbe diventata nemmeno se i nastri del concerto fossero stati sottoposti ai più avanzati trattamenti di post-produzione audio: diventa allora più facile rispettare e condividere la scelta di proporre sul mercato un prodotto che si avvicinasse il più possibile non tanto (o non solo) alla resa musicale dei Joy Division ma soprattutto al loro spirito: un prodotto che offrisse all’ascoltatore i Joy Division più veri. Chi acquista un live del gruppo in un certo senso si aspetta, pretende una registrazione scarna ed una resa tutt’altro che ineccepibile, perché è così che i Joy Division devono suonare: lontani anni luce dall’ovattata perfezione di quella che, nuovamente nel booklet del secondo volume, viene definita una scena "traumatised by synthetic rock and an increasingly aimless dance culture", traumatizzata dal rock sintetico e da una cultura dance sempre più priva di direzione. I Joy Division sono irrimediabilmente fuori moda ed a loro oggi si richiamano da vicino soprattutto altri gruppi ugualmente emarginati dal mainstream, ma proprio in questa orgogliosa e non ricercata diversità dal panorama musicale attuale risiede tuttora il fascino della grande e tragica band britannica. Ascoltare i due volumi del Fractured Music Archive permette di rievocare per un paio d’ore lo spirito inquieto di Ian Curtis, figlio di un’epoca ed autore di una produzione che ci paiono già lontanissime ma alla quale tutti siamo più o meno profondamente legati; e permette a Curtis di rinnovare a vent’anni dalla sua scomparsa il suo grido doloroso e lancinante, per poi sprofondare nuovamente nel regno delle tenebre dal quale lo abbiamo evocato, lasciandosi dietro sulle ultime note dell’ultimo brano uno strano senso di disagio che faticheremo a scrollarci di dosso…


Fabrizio Claudio Marcon

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