KULT Underground

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Sonntag – II

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Sonntag – II

Urto qualcosa col gomito. Segue un tintinnare metallico. E con questo siamo a due. Silvia che ride, sbuffa fumo. Silvia che accende un’altra sigaretta. Io che la guardo e ho sete. Gli occhi sono lucidi. Silvia che parla con me e non le credo, e poi ho fretta, forse non ci trovo niente e resta solo la sete, questa fame che ho di acqua. Sparecchiata la tavola sono steso in terra. Occhi chiusi e mano sinistra sugli occhi.
Gli occhi chiusi e rumore di buio e ferrovie e uomini. Strade. Luce su tutto. Poi Anne. Le copro gli occhi con la mano sinistra, vorrei poi esploda in sillabe: per darle luce, gonfiarle gli occhi. E attendere che il metrò passi. Io che corro avanti. La oltrepasso. In un locale simile a tanti: puzzo di fritto. Baciarsi. Per ciascuno un bicchiere di birra. Seduti al tavolo. E’ sottile, il tavolo: è in legno; posto al centro della stanza. Luce secca ocra filtra da due teorie di vetrate arancio simmetriche che sventrano le pareti verdi; cade tra cartoni sagomati maschili, li scontorna in polvere. Io ruoto il capo intorno, fisso innanzi a me gli occhi; verso da bere. E’ troppo fermentata. Sorseggio. Poggio il bicchiere. Passo sulla lingua i denti, quello che ne resta. Lei ride, fa gesti. E’ troppo fermentata. Fragore di motori aritmico penetra l’interno, riempie tutto. Non credo sia il caso di farlo. Anche se necessario. Prematuro. Già…Wirdorlf che solleva il bicchiere e abbocca grandi sorsi, con l’altra che gli fissa i denti, glieli cava. Wirldorlf che si passa la lingua tra quello che gli resta dei denti e quella sorride e dice di non capire e sorride. Wirldorlf che si alza, si accosta a un gruppo di sagome; ne scosta una da un’altra; alcune le accosta tra loro. Chiede scusa, torna a sedersi, con l’altra che si alza e la sua birra è finita e deve proprio andare; che il passare inosservati, dipende tutto da questo. Scansando con cura le sagome, ci appressiamo all’uscita. Fuori dal locale restano alberi discinti tra vetro e palazzi e terra, compressi in pilastri nudi in cemento armato: alti toccano i cavi neri tirati da palo a palo per tutti e mille questi pali larghi messi in fila. Scalzi. Lei che si avvia lungo la strada puntellata di pali. I contorni scuriscono nella luce bianca. Fragore aritmico vibratile contro palazzi, figure; sui bordi. Scorrere i bordi con le dita, frugarvi i profili concavi, quelle aree resistenti al tatto. Il corpo è compromesso. Sete in terra e luci solcano il soffitto. Sete d’aria, piccole dita.
Apro gli occhi. Silvia mi è di fianco, ingoia aria come se volesse parlare. "Ti va o no di venire a teatro?"
Resto lì, sospeso. Andarci insieme. Sono anni che non ci vado. Un teatro credevo neanche più esistesse.

Christian Del Monte

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