KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

La Belligeranza del Tramonto – Giorgio Linguaglossa

4 min read

A sorpresa ne La belligeranza del tramonto G. Linguaglossa impegola se stesso e il lettore in un gorgo emotivo che l’armatura colta non dissimula, quasi si trattasse, tra personaggi veri e presunti, del coagulo del proprio mondo onirico ed egli si offrisse a noi come poeta visionario.
Miti moderni e antichi, filosofi di mente aguzza, re e altra varia umanità, sempre incastonata nella più raffinata inerenza classica, ci avviticchiano da ogni parte, in una sorta di universo parallelo, ove tutte le accezioni del travaglio dell’oggi vengono reinterpetrare e vi si ritrovano. In verità la presenza simultanea dei vizi sul palcoscenico della Storia accomuna nella denuncia ciò che è vicino o lontano, in una disperazione annichilita e stupefatta.
Il testo comincia e si conclude con una preghiera, nelle quali s’intravede lo squarcio delle proprie profonde lacerazioni e la confessione della propria angoscia e pertanto ci sembra di cogliere nell’opera una forma di intimismo del tutto ignota al Paradiso.
È inevitabile condividere l’oppressione del poeta, mentre ci si lascia condurre sotto la cappa inquietante da fine imminente del proprio tempo e di quello degli eventi, scendendo nel fondo più torbido dell’essere umano, cui si può ascrivere solo istinto e violenza, e svelando gli idola loci, ossia l’illegittimità di ogni pretesa oggettiva e teleologica del mondo.
Da questo punto di vista l’insieme di versi e prosa, ambedue dal rispettivo versante di filigrana coltissima, si propone come un trattato di filosofia, sul senso della vita e del mondo senza tralasciare il problema della conoscenza, giungendo a predicare l’assenza di Dio nella creazione, dove albergano quindi solo messaggi muti.
Vedere con chiarezza le cose….ignote e celate a chiunque altro, resta solo un auspicio.
Le conclusione cui perviene L. sono, infatti, di un pessimismo onnicomprensivo e devastante.
Nell’ottuso dispiegarsi della res extensa, la res cogitans non è in grado di raggiungere il nucleo dell’essere. L’unica filosofia possibile è quella parziale dell’io che esclude qualsiasi indagine metafisica, trasformando la dialettica filosofica in fraintendimento e mistificazione perché l’unico reale è il punto della propria imperfetta soggettività. Neanche la parola designa il certo o il pensiero e quindi, non potendo in alcun modo raggiungere l’essere, il filosofo più autentico è colui che decide di chiudersi al pensiero e alla sua esplicazione.
Echi della filosofia dell’irrazionale, da Schopenauer a Kierkegaard, della vita come inganno degli opposti e disperazione, s’intravedono di tanto in tanto.
Nell’approssimazione della condizione umana che fornisce L. non esistono mai spiragli di logos o di salvezza. Del resto uno sguardo ravvicinato alla verità, qualora fosse possibile vedere le cose dal di dentro, sarebbe insopportabile perché dichiarerebbe l’unica verità del vuoto che ci avvilisce.
Anche la parola della comunicazione si deforma tra i denti a nostra insaputa, ma qualunque cosa si compia nei circoli più vasti dell’empirico non arriva nemmeno scalfire la miseria del bruto-uomo e la sua cecità di specie. Anche Icaro, quello di oggi e di ieri, emblema del sogno, dell’utopia, che pure si affaccia a solleticare di tanto in tanto a mete più alte, finirà col cadere, di nuovo affermando il primato della fisica sull’immateriale.
Dalla parte opposta il caos-caso regna sovrano e in queste condizioni la voce della filosofia lascia spazio solo ai Sofisti, gli unici in grado di sostenere un principio e il suo esatto contrario.
Il fine dell’uomo, dal re all’ultimo mendicante, è in conclusione quello di galleggiare nel mare agitato della Storia, facendo un passo avanti ed uno indietro, in tal modo negando valore al progresso. Nella catastrofe del tempo il filosofo non ha nulla da dire, vive il suo profondissimo letargo e solo nel silenzio, perduto l’uso della lingua, sarà finalmente in sintonia con altri esseri, parte del tutto, ossia del nulla indefinibile e inattingibile.
Di fronte al degrado dell’uomo, per sua natura e perversioni, il nome di Dio è impronunciabile e anzi da maledire. Qualora ci fosse stato un messaggio dell’Artefice, esso è finito conficcato con la sua rivelazione nel cuore della pietra dove non è possibile raggiungerlo.
Ezio-Linguaglossa, entrambi alla loro ultima battaglia, strenui don Chisciotte, non del tutto arresi, restano a difendere un sepolcro vuoto, che è il mondo-bara che ci contiene dalla nascita.
A questo punto si può concepire il giusto significato del titolo dell’opera, ossia l’ultima lotta che arroventa le pagine e la mente del poeta, quasi impegnato a dar fuoco anche alle macerie, le sue ma anche quelle che implicano la dissoluzione della Cultura: la resa dei conti finale prima della cenere.
La condizione dell’essere umano e delle istituzioni, in generale il potere, perfino quello più moderno della videocrazia, è tanto avvilente, che solo la menzogna, l’illusione e l’autoinganno permettono la sopravvivenza
Se mentire a se stessi è la pozione magica che assicura all’uomo la forza di andare avanti, la fuga in dimensioni extratemporali, qui solo quelle che attingono al patrimonio della conoscenza, offre riparo e sollievo nei miti della serenità, dell’amore e della bellezza.
Eppure l’implorazione a kore-Persefone, divinità che muore e rinasce al punto da trasformare i riti della fertilità quasi in un culto dell’immortalità dell’anima, prefigura un desiderio di abbandono per sfuggire all’inquietudine e forse anche quello che possa esserci, dopo tutto, qualcosa che ci aiuti a capire, fosse anche dopo la morte.

Roma, 31 marzo ’06

Commenta