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Budapest swing lovers

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Budapest swing lovers
(Stefano Lorefice – Edizioni Clandestine)

La prima cosa ti colpisce sfogliando Budapest swing lovers di Stefano Lorefice, sono i titoli in inglese, bellissimi, intesi, già poesia solo quelli; e il multilinguismo di alcune poesie, tante lingue che si confondono, sussurri di significato che si celano nella musicalità del ritmo poetico privo di rima; e ancora la totale mancanza di punteggiatura, le parole isolate nella pagina, dove gli spazi bianchi acquistano un fondamentale valore, in quanto spazi del silenzio.
Poi inizi a leggere e molto ti sembra oscuro, sei quasi disorientato. E a rileggere, e solo allora inizi a capire come si compongono le frasi ed entri in sintonia con il ritmo lento del testo. Rileggendo riesci a collegare certi accenni e a interpretare il codice di analogie, di simboli, di sinestesie e ti inoltri dove lo scrittore ti vuole condurre, ti lasci guidare dalla musica verso sentieri sommersi (uno sguardo che diminuisce la distanza/fra un punto e l’altro/rapporto di progressivo annullamento tra inizio e fine/applicare leggi mute ad un solitario battito d’ali /ascoltando sentieri sommersi…).
Il ricorrere di alcune strutture tematiche ti porta a un continuo approfondimento della comprensione. Percorrendo i temi principali (il viaggio, l’amore e il sesso, la metropoli piovosa, alienante, veloce e innaturale, gli interni claustrofobici con la strada e la città fuori oltre il vetro, l’oceano, il mare, ma soprattutto la scrittura e la poesia) si ha la sensazione di essere sospinti verso uno sprofondare lento e modulato, attratti dai vortici concentrici degli abissi del significato. Rileggendo più volte il testo o anche solo singoli versi (e capita di farlo, perché sono bellissimi e di grande forza espressiva) il lettore sperimenta un avvicinamento concentrico alla dimensione suggerita dal poeta.
Lorefice utilizza in modo sapiente le parole del linguaggio comune; maneggiandole e manipolandole come fossero colori, o meglio ancora, come fossero note, le combina in soluzioni impreviste che aprono nuove possibilità linguistiche e cognitive per arrivare a risultati di visibilità estrema (uno sparire logico su pianure a visibilità estrema); scardina i nessi logici e sintattici in frammenti-fotogrammi, dando vita a un linguaggio teso, energico, moderno.
Anche il multilinguismo non rappresenta l’incomunicabilità della realtà contemporanea, come in un primo momento può sembrare; al contrario, rileggendo, ti accorgi che l’accostamento di lingue diverse dilata il senso a una dimensione nuova creata dal suono, nella quale l’elemento ritmico si fonde con il significato delle parole e lo completa. La lingua straniera aumenta la concentrazione del lettore che in un primo momento tenta correlazioni semantiche tra titolo e testo, e cerca di ricostruire i collegamenti logici nella sintassi destrutturata, per poi arrendersi all’istinto e alla musicalità evitando sterili e inutili operazioni concettuali.
La parola di Lorefice è scelta, studiata, essenziale, assoluta, di grande valore evocativo, non descrive, ma lascia intendere l’esistenza di percorsi nascosti, atmosfere, luoghi, personaggi. Le frasi brevi, veloci e il minimalismo sintattico e stilistico (substrato minimale sul fondo/ … /costruzioni minimali in ogni frase/basi estetiche) portano la parola al limite del silenzio, agli archetipi, ai segreti che nascondono le acque (scompone la nebbia/sussurrando la formula segreta delle acque/ … / la purezza di ciò che neanche gli oceani raccontano).
L’atto conoscitivo avviene nel silenzio misterioso, nel quale si dissolvono disequilibrio, disarmonia e dissonanza.
Come in molta filosofia orientale, dal vuoto e dal silenzio hanno origine le forme. Ricorrente nella lirica di Lorefice l’immagine del cerchio, di ciò che è circolare, simbolo dell’eterno moto dello spirito verso l’alto. La geometria concentrica è il ritorno all’inizio, all’essenza oltre il fenomenico. Dalla percezione del vuoto si arriva alla profondità della coscienza (coscienza di sé/ … /riflette il silenzio liquido/aggiungendo alla percezione la quiete del vuoto). Il poeta, nel processo creativo, resta al limite, ai confini del silenzio, solo sui margini dell’abisso (si sta soli/quando si scrive davvero/ … /accetto il confine/il limite d’appartenere al silenzio/ … /sono al confine di un ritmo jazz/posa ricercata sotto la superficie/continuo movimento di avvicinamento/mi ascolto meglio/ … /credo d’esistere per il silenzio). Lorefice, in queste liriche metropolitane, crea una realtà nuova utilizzando tonalità fredde, geometriche, blu, colore ricorrente nel testo, colore del cielo, dell’acqua, del fiume, del mare, dell’oceano, della quiete e della coscienza, e utilizzando i ritmi lenti e malinconici del blues, dello swing, del jazz.
Sinestesie uditive e visive si intrecciano quando il poeta parla della poesia e della poetica (sono un artista/mimo il silenzio dell’iride/cambio lo sfondo/dei tuoi occhi che ascoltano/ … /scrivo di sera/di solito osservo le parole). La scrittura è osservazione, riflessione, lentezza, è ascolto.
La tecnica poetica utilizza gli strumenti della musica, della pittura, della fotografia. E nei suoi fotogrammi, nelle riprese ravvicinate, quasi fossero realizzate con un teleobiettivo, il poeta elimina gli sfondi, che restano dietro, invisibili, nascosti, comprime i piani e annulla la sensazione di profondità dell’immagine, ne esclude il contesto. Istantanee, prive di sfondo, che la parola evocando crea (azzera la sensazione di profondità/una o due frasi veloci/linee che ho scoperto chiudendo gli occhi).
Gli oggetti, gli ambienti, i personaggi, mai espressi nel dettaglio, mai visti direttamente, sono come riflessi in una pozzanghera, in prospettiva capovolta; oppure sono filtrati attraverso la nebbia o il fumo denso di una sigaretta, in una luce soffusa, suggeriti dalle sfumature più che dal colore stesso, sono visti tramite una sorta di fade (collasso di tutti i cromatismi ad un unico limite), in quel contrasto sfumato di luce e ombre che si ottiene socchiudendo gli occhi, perdendo la visione nitida di ciò che ci circonda, fino al buio completo degli occhi chiusi. Ma gli occhi chiusi del poeta non sono occhi ciechi, sono occhi che, ascoltando, toccano la visibilità estrema di significati reconditi (a volte chiudo gli occhi piano/per gustare il momento/lo sfumare delle immagini attorno alla luce/ … /parole fra le dita/la quiete possibile/di chi spegne la luce ed ascolta/essendoci ancora).
Da leggere e rileggere, con sottofondo jazz o blues, in una giornata di pioggia, lasciandosi trasportare, dal funambolismo sonoro, verso la dimensione misteriosa dei cieli capovolti che il poeta, icaro ribelle, lascia solo intravedere…

Stefania Gentile

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