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Un giorno una mosca per caso

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Un giorno una mosca per caso

Giselle non era ancora morta, giaceva sul selciato, agonizzante, mentre si dissanguava lentamente, quando mia madre, una vecchia ma saggia mosca, deponeva, una ad una, le sue ultime uova feconde tra le feritoie delle piaghe ancora fresche. Il sole bruciava sul punto di liquefare l’asfalto, ma non sarebbe mai stato abbastanza caloroso da essiccare il sangue arrestando quella fatale emorragia; per mia fortuna la carne permaneva umida, ancora quel tanto che basta, assecondando con la temperatura un precoce e plurimo sviluppo delle future larve. Non ci furono corse all’ospedale, di quelle a sirene spiegate e che, troppo spesso, sembra che compromettano per sempre lo sviluppo del senso d’orientamento delle mosche. Tutto avvenne con la consueta solerte, cinica prassi dei becchini, senza troppi rumori ma, soprattutto, senza incorrere nel più temibile dei pericoli: bombardamenti attraverso flebo di agguerriti antibiotici. Più tardi, all’obitorio, somministrarono un qualche intruglio ritardante dei processi di decomposizione, ma, simili espedienti, garantiscono migliori possibilità di sviluppo e sopravvivenza per quelle larve che sanno aspettare e fiorire, senza troppa ingordigia, solo nel momento in cui, la carne, trasformandosi, degenera. Lunghe e noiose ore trascorse nelle celle frigorifere, ad aspettare visite e riconoscimenti, firme e snervanti burocrazie. Poi, il giorno fatale, quello più lungo e atteso: l’autopsia. Guai a capitare tra quei frammenti di carne immersi nei reagenti! Occhi curiosi che spiano ogni anfratto della pelle e scavano, scavano…affondando bisturi e sonde…Dio! Che orrida invadenza hanno questi umani, sempre pronti a curiosare oltre la loro natura per attestare la propria. Un sospiro, si fa per dire, lo si può tirare giù solo il giorno del funerale. Anche lì, a rendere tutto più complicato, ci sono sempre loro: gli umani. Capita, non di rado, che molti cadaveri finiscano per esser cremati. Vi lascio immaginare il piacere di finire, senza ancora essere neppure nati, condannati tra le fiamme di un imponente rogo. Per mia fortuna, nel paesino di Giselle, dove venne celebrato il rito e tumulato il feretro, le cose andarono né più né meno come nelle vecchie consuetudini. Trascorsi alcuni giorni dalla sepoltura, saltai fuori, vispo e determinato a divorare quanta più poltiglia possibile. Ero deciso a rendere onore a quella anziana ed energica mosca di mia madre, volevo, in fretta e furia, assumere le sembianze di una vigorosa larva pronta a trasformarsi e volare verso una nuova vita. Furono sufficienti pochi giorni di quel lauto banchetto per raggiungere adeguati connotati e dimensioni. Ero pronto, finalmente, per la grande impresa, ma un’altra prova mi attendeva: il fuoriuscire da tutta quella melma. Il punto più gravoso consistette nel superare quante ermetiche zincature circoscrivevano la bara. Trascorsi interminabili ore, che per gli insetti potrebbero essere mesi, facendo qua e là capolino alla ricerca di un possibile varco. Niente sembrava penetrare oltre e quando, disperato, mi ero quasi rassegnato a morire lì, nel buio di un anfratto, scorsi, salvifico, un rivolo di umida e percorribile terra. Strisciai in tutta fretta, con le ultime forze della disperazione, ascendendo tra quelle cavità più prossime alla luce del sole. Giunsi, non so neppure io dove e come, laddove mi condusse l’istinto. Ero pallido e morente, di quella comunque apparente, pronto per quell’ultima alchimia che mi avrebbe, di lì a poco, trasformato in un giovane e possente moscone. Uscii fuori, lo ricordo bene, che era un giorno soleggiato, proprio come quello in cui mia madre mi aveva concepito. Non c’erano molte persone al cimitero, anzi, a dire il vero, ce n’era una sola: la sorella di Giselle, raccolta, con pochi fiori in mano, sulla tomba. Fui subito attratto dall’odore penetrante della sudorazione della pelle che emanava quella giovane creatura. Non stentai, inebriato, un solo attimo, nell’approssimarmi cercando un possibile angolo dove posarmi e, nella sua distrazione, approfittarne per suggere un po’ di quella profumata ambrosia. Destino volle che, nel voltarsi, mi vide, scaraventandomi, infastidita, la mano contro. Caddi imbambolato a terra, capovolto e, lentamente, persi i sensi, ruotando sempre più a rilento le ancora gracili zampette. Il sole ha fatto tutto il resto, dissecandomi in poche ore; la sorella di Giselle, probabilmente, non si rese neppure conto di tutto questo: era lì che continuava a sostare raccolta sulla lapide, assorta in tutt’altri pensieri.

Enrico Pietrangeli





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