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Camera

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Camera

Le ombre erano cambiate. Era entrato nella doccia, e aveva aperto il rubinetto dell’acqua calda appena appena, quanto bastava perché un rivolo tiepido gli scorresse lungo il rachide cervicale; adesso le ombre si allungavano avide sulle piastrelle color avorio del bagno. In piedi in mezzo alla stanza, osservava quieto la danza delle tende delicatamente ricamate, le foglie di acanto che si agitavano nella brezza lievissima del pomeriggio, giocando con la luce rosata.
Aveva lasciato che il tempo gli asciugasse l’acqua sulla pelle.
Camminò tranquillo lungo il corridoio, entrò nella stanza della donna, furtivamente. Non voleva disturbare il suo sonno, voleva solo recuperare i suoi vestiti. Li reindossò con calma serafica, indugiando con gli occhi sulla cascata rossa che copriva il cuscino, meravigliato di quanto la Natura sapesse essere generosa con il genere umano, e di quanto invece il genere umano fosse ingrato verso la Madre di tutte le cose.
Lui no, lui era un artista, lui sapeva vedere la bellezza che esiste in tutte le cose di questa Terra; lui solo ne era in grado, ciononostante non era superbo, non si lasciava accecare dall’orgoglio, no! Cercava di dividere con il resto dell’umanità il suo dono, la sua innata sensibilità: cercava di tradurre in realtà le sue percezioni, di permettere a tutti di godere dell’emozione unica che solo una vera opera d’arte può dare.
Decise di dare un ultimo sguardo alla sua creazione, prima di lasciarla esposta. Doveva assicurarsi che tutto fosse perfetto.
Percorse a ritroso il corridoio, oltrepassò la porta del bagno e svoltò a sinistra.
Nella nuova stanza la luce era fioca, appena una spruzzata di bronzo sulle pareti candide. Negli angoli strisciavano già le tracce del buio della sera; paffuti angioletti sorridevano dai quadri a mezzo punto, sembravano un po’ assonnati però, come esausti da lunghe ore di giochi.
Come biasimarli? Lui stesso si sentiva fin troppo rilassato, il respiro lento come quello di chi è immerso in un sonno profondo.
Passò in rassegna l’intera stanza, dalla finestra socchiusa, le tende lucide come confetti, il cassettone carico di giocattoli e libri. Sul pavimento, un folto tappeto rosso fiammeggiava quietamente, un torrente di lava dove affondavano, indifese, piccole bamboline dagli occhi stupefatti. Distolse lo sguardo, lo posò sullo scaffale gremito di pupazzi, sull’armadio semiaperto da cui occhieggiavano scarpe, tute, vestiti, tutti piccolissimi.
Anche la figura sul letto era piccolissima, dava addirittura l’impressione di essersi ristretta, ma lui sapeva che non poteva essere così, era troppo presto. Ricordava esattamente ogni passaggio dell’esecuzione della sua opera, ricordava come lei lo avesse abbracciato, e come poi si fosse agitata nella sua morsa, di come era suonata strana e gorgogliante la parola "mamma" quando era uscita dalla sua gola recisa. Aveva continuato a dibattersi e a parlare ancora per tantissimo tempo, o almeno così sembrava a lui. Rose rosse erano sbocciate sul ricco copriletto a crochet.
Era rimasto a guardarla agonizzare, poi l’aveva ricomposta, le mani incrociate sul petto acerbo, le dita a lambire la ferita aperta.
Adesso la sua opera era quasi terminata, toccava alla Natura porre il tocco finale, non a lui; una mosca si posò pigramente su un occhio vitreo.
Era ora di andare, aveva compiuto il suo lavoro. Guardò finalmente l’orologio. Le quattro e mezza – poteva ancora fare in tempo.
Un piccolo dettaglio, posato sul comodino, catturò il suo sguardo: una specie di palla rosa di pelouche, con enormi occhi azzurri; uno di quegli affarini che si vedono alla televisione, nei cartoni animati, pensò. Lo raccolse, strofinò via una macchia rossa appena rappresa da una delle sue minuscole zampine. Adesso sì che era perfetto, anche lui!
Mentre usciva in silenzio, con un sorriso soddisfatto, infilò l’animaletto in una borsa di carta pesante, a disegni vivaci, assieme ad un biglietto: "A Sylvia, con tanti auguri di buon compleanno. Papà".

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