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Madcap laugh

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Madcap laugh



– …è un fottuto mondo impazzito – digitava nevrotico con il mozzicone della sigaretta che gli pendeva dalle labbra, accovacciato in un angolo della stanza, sopra l’esiguo spazio di un palmare.
– …uno sporco fottutissimo mondo e niente più – concluse nel suo sincopato ed incessante scrivere lasciando scivolare il piccolo ritrovato digitale che tratteneva fra le mani in terra. Il suo sguardo parve, di colpo, essersi acquietato da una prepotente foga liberatrice che lo aveva a lungo inchiodato ad usare la tastiera. Ora era assente, svestito di quella violenta luce che lo incalzava sospingendolo in dure parole di rabbia. La sua pupilla aveva perso contatto con l’anima e si comportava come uno specchio, riflettendo il solo sguarnito scorcio che delimitava i confini del lato opposto della camera. Un vaso con dei fiori appassiti, il putrescente aroma che aveva invaso l’ambiente e moltitudini di cavi intrecciati in improbabili connessioni elettriche caratterizzavano lo statico panorama. La piovra che fuoriusciva dalle note di Octopus di Syd Barrett s’incarnò in quel groviglio di fili, a rappresentare la sua contorta mente divenuta inerte.
Si alzò, infine, rompendo quello sguardo fisso, liberandosi da un guscio larvale con movimenti ponderati ed incerti. Si percepì nell’ebbrezza di una farfalla che correva entusiasta verso la vita; dal cuore alla mente fu pervaso da un’unica profonda emozione ed iniziò, un passo dopo l’altro, a tracciare una danza lungo il perimetro della stanza.
– i secoli non sono altro che istanti ed il tempo non è che un effimera invenzione per trattenerci nella gabbia della storia – realizzò con retaggi umani nella sua testa di colpo incarnata in quella di un evoluto, libero insetto. Quindi, roteando, distese le braccia aperte attraversando la stanza in un doppio circolo ad otto che simulava il volo. Lo sguardo divenne trasognato, inebriato d’inesistenti pollini che pullulavano dentro la sua mente e, di tanto in tanto, si approssimava al vaso contenente quei marcescenti fiori inalandoli intensamente.
Fu proprio durante uno di questi delicati approcci, fatti dello sfiorare appena con la narice gli essiccati petali che guarnivano ancora, per precario equilibrio, il calice, che cadde, estasiato, con le ginocchia in terra.
Si rannicchiò, raccolto, come fosse intento a recitare una preghiera, un puro e sincero ringraziamento al creato devoluto dal solo istinto. Modulava, costante, il labbro inferiore senza che dalla bocca fuoriuscissero suoni percettibili all’orecchio umano.
Dal computer, prossimo al palmare scaraventato a terra e con il cavo ancora collegato in una delle porte USB del gruppo di memoria, si avviò un software precedentemente pianificato. Un breve script enunciava altre parole, ordinate ed incessanti, che cadevano, una sillaba dopo l’altra, come pioggia…

Oh dolcezza, libellula in volo
che vibra sul lago in fretta
e non conosce quell’orizzonte,
non veste gli occhi di effimeri confini;
stenta e talvolta cade, serena morte,
travolta d’insolita innocenza.


Mentre comparivano queste parole sullo schermo sopraggiungeva, cadenzato ed ossessivo, il costante rumore di un gocciolio fuoriuscito da qualche rubinetto che veniva amplificato nell’eco prodotta dalla nuda stanza. Un fastidio che avrebbe potuto incarnarsi in musica fin tanto da eseguire una lunga suite: Echoes dei Pink Floyd; così come lui, quell’uomo divenuto quasi farfalla, la lasciava scorrere nella sua mente.
Il suono, quell’umano, ultimo primordiale retaggio, si era fatto carne ancor prima di abbandonarci ad altre melodie, quelle delle fauci di famelici vermi. Lui, non esitò, ruppe il suo sarcofago di bruco, diede vita all’irrefrenabile puro idealismo di rinascere farfalla; raggomitolato, al suolo, fuoriusciva un ultimo conato di sangue dalla sua bocca. Giaceva immobile, iniziato ad una presunta fuga di resurrezione, in posizione fetale, come in un lungo abbraccio dove, più che rinascita e amore, restava, immortalato, solo un disperato ghigno di liberazione.


Enrico Pietrangeli

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