KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Sogni

8 min read

Sogni

Non devo dormire. Ho già bevuto il mio sesto caffè. Non devo dormire.
Eppure, anche se gli occhi sono aperti e la testa ben dritta sulle spalle, a tratti sento che la coscienza scivola via, come alla deriva, verso un pericoloso torpore. No! Non devo dormire! Non voglio tornare laggiù! Bisogna che faccia qualcosa… Qualcosa che mi tenga impegnato… Scrivere, ecco! Scriverò di quello che mi è successo.
Così starò sveglio. Fino a domani.
Tutto è cominciato con quel maledetto viaggio in Africa… Erano tanti anni che lo sognavo, e finalmente mi ero deciso. Un tour di tutto rispetto nel cuore dell’Africa più selvaggia. Oh, non sono mai stato un temerario, e mi ero circondato delle migliori guide. Tutti eravamo armati di fucile. Avevamo tende dotate di ogni confort. Attrezzatura fotografica costosissima. Un telefono satellitare non più grande di una valigetta 24 ore. Tutto procedeva per il meglio. La natura era spettacolare. Tuttavia al terzo giorno di viaggio non ero ancora soddisfatto: volevo vedere qualcosa di veramente selvaggio, qualcosa che non fosse meta di turismo internazionale. Cominciai ad interrogare prima le guide, poi i portatori, uno ad uno. Finalmente, un nero dall’età indefinibile tra i venti e i trenta, che fino a quel momento non aveva mai detto una sola parola, tanto che lo avevo creduto muto, mi disse nel suo inglese stentato che conosceva un posto dove non era mai andato nessuno. Lo fissai per qualche istante per vedere se stava mentendo per qualche dollaro di mancia in più. Era assolutamente serio. Il viso una maschera arcigna, il petto deturpato da orrende cicatrici tribali. Ripensandoci ora, mi viene in mente che nemmeno gli altri portatori gli parlavano mai, quasi che avessero paura di lui. Lo chiamavano Kutu. Anch’io feci sempre così, credendo si trattasse del suo nome.
– Ne sei sicuro? Nel posto di cui parli non c’è mai stato nessuno?
– Sì. Noi va. Io porta. Tu vede cose che nessuno vede.
Allora ero troppo preso dall’entusiasmo di aver trovato un Eden mai calpestato da piede umano per riflettere sulle parole di quel portatore così bizzarro. Ma del senno di poi son piene le fosse, si dice così vero? Ed ebbe ragione. Oh, se ebbe ragione! Ma andiamo con ordine. Gli altri cominciarono subito a protestare. Non era saggio deviare dal percorso previsto. Ci saremmo addentrati in una zona evitata da tutti. Io fui irremovibile: alla fine riuscii a convincere le guide che col nostro equipaggiamento eravamo in grado di far fronte a qualsiasi pericolo. Chi era ancora un po’ titubante, cambiò idea alla vista del denaro. I portatori si guardavano tra loro e sussurravano frasi smozzicate nella loro lingua incomprensibile. Erano alquanto nervosi. Nel mio delirio da esploratore non diedi importanza alla cosa. Ordinai di montare le tende e di accamparci. Il mattino dopo ci saremmo addentrati nell’ignoto. Il mio cuore tratteneva a stento l’eccitazione. Sognai, quella notte. Ma non ricordo cosa.
Il mattino dopo i portatori erano spariti. Solo lui rimaneva. Le guide iniziarono subito ad imprecare, e a dire che non potevamo più proseguire, che bisognava tornare indietro. Ma io ero troppo vicino al luogo dei miei sogni (devo fermarmi… ho avuto un accesso di riso isterico) per poter semplicemente voltarmi e tornare in albergo. E così riuscii a convincere le guide che potevamo fare a meno dei portatori se fossimo andati e tornati in giornata. E così iniziammo ad inoltrarci nella giungla più fitta che possiate immaginarvi. Dovunque guardassi, infinite tonalità di verde mi avvolgevano in un cangiare di ombre e di luci quasi ipnotico. Il caldo e l’umidità erano soffocanti.
In compenso, lo spettacolo che si offriva ai nostri occhi era meraviglioso.
Stavo contemplando un albero enorme, che doveva essere lì da prima che fossero costruite le piramidi, quando un colpetto alla nuca e il dolore di una puntura mi fecero trasalire. “Un altro di quei maledetti tafani” pensai. L’aspetto peggiore della giungla sono gli insetti che ci vivono. Consumavamo diversi tubetti di pomata al giorno. Cominciai a portare una mano al collo per sentire con le dita quello che mi era successo, ma persi improvvisamente conoscenza. Non ci fu alcun segnale premonitore, come vertigini o nausea: semplicemente mi spensi come se qualcuno avesse girato un interruttore.
Quando tornai in me, fu come se mi svegliassi di soprassalto da un sonno leggero: balzai a sedere sulla branda dove me ne satvo sdraiato pochi istanti prima, spaventando a morte Jackson, il capo guida, che stava per appoggiarmi sulla fronte una pezza bagnata.
– Signore! Come si sente? Credevamo stesse morendo…
– Io… Sto bene, credo… Cosa.. Cosa mi è successo?
– E’ stato come in coma per tre giorni. La febbre era altissima, il polso molto debole. Le abbiamo somministrato dei medicinali, ma niente sembrava fare effetto. Poi la temperatura è scesa, ma non riprendeva ancora conoscenza. Pensavo che ormai non ci fosse più nulla da fare.
Siamo tornati al campo base. Avrei voluto riportarla in città, all’ospedale, ma ogni volta che ci spostavamo la febbre saliva. Era in preda al delirio.
Restai qualche secondo a pensare. Tre giorni! Per tre giorni ero stato in bilico tra la vita e la morte! E tutto per colpa di un maledetto insetto… D’istinto mi toccai la nuca. Niente. Nessun gonfiore.
Nessun dolore. Niente di niente. Chiesi a Jackson di controllare, ma anche lui disse che non c’erano segni di punture o altro. Tutto era così strano. Alla fine pensai che la piccola ferita si fosse rimarginata senza lasciare tracce durante i tre giorni in cui ero stato privo di conoscenza. Le altre guide ritenevano che un insetto mi avesse trasmesso una particolare febbre malarica. Anche per questo si erano affrettati a levare le tende. I portatori non avevano fatto ritorno. Solo Kutu era rimasto sempre con noi. Io mi sentivo leggermente stordito, come dopo una sbornia, ma tutto sommato stavo abbastanza bene. D’improvviso avevo perso tutta la voglia di giocare al grande esploratore. Volevo solo tornare a casa. Pagai a tutti quanti la cifra pattuita, più una generosa mancia per avermi accudito mentre ero incosciente. Alla fine mandai a chiamare anche Kutu, che si presentò subito nella mia tenda.
– Ecco, questo è il tuo compenso, Kutu – Dissi, porgendogli alcune banconote. Ma con mia sorpresa, lui rifiutò.
– Io non porta per denaro. Io fa quello che giusto.
Poi mi si avvicinò con fare misterioso. Provai l’istinto di ritrarmi, nei suoi occhi c’era una luce strana. Ma mi trattenni. Con voce bassa, quasi sussurrando, disse:
– Tu ora vede. Tu ora non più stesso che prima.
E senza lasciarmi il tempo di chiedere spiegazioni, uscì dalla tenda rapido come un animale selvatico. Inutilmente lo feci cercare per tutto il pomeriggio. Era scomparso.
Alla fine lasciai perdere, desideroso di lasciarmi alle spalle quella brutta vicenda assieme all’Africa. L’indomani avrei preso il primo volo verso casa. La sera mi coricai nella mia stanza d’albergo dopo una robusta dose di cognac. Sognai Kutu, quella notte. Nel sogno entrava nella mia stanza dalla finestra e mi fissava. Cacciai un grido, credendo che fosse veramente lì di fianco al letto, e Mi resi conto di avere ancora la faccia sul cuscino. Era stato un sogno. La stanza era vuota. Passai dieci minuti a controllare l’armadio, il letto, la finestra. Era tutto in ordine. Sentendomi alquanto sciocco, tornai a dormire.
Mi svegliai all’alba, madido di sudore. Mi vestii in fretta, scaraventai la mia roba nella valigia e tralasciando la colazione uscii dall’albergo nella pallida luce del mattino. Volevo andarmene al più presto possibile. Tutto mi sembrava vagamente inquietante: il modo in cui i rari passanti mi osservavano, il colore del cielo, l’odore dell’aria. Presi un taxi e mi feci portare all’aeroporto. Trovai dopo mezz’ora di richieste un pilota dall’aria stanca che acconsentì a decollare col suo bimotore immediatamente, in cambio di una cifra spropositata. Non feci storie, tuttavia: volevo assolutamente partire.
Mi aveva preso una sorta di frenesia, un senso di malessere diffuso, che non cessava di spronarmi. Riuscii a rilassarmi un poco solo quando, dopo molti scossoni sulla pista malridotta il vecchio aeroplano si levò pigramente in volo con un ruggito da dinosauro raffreddato. Mi concessi il lusso di appoggiare la testa al sedile, e, cullato dalle vibrazioni dei due motori, mi addormentai.
O meglio, mi svegliai. Come se mi avesse improvvisamente morso un serpente, balzai fuori dal letto con uno scatto talmente violento che i muscoli della schiena presero a farmi male. Ci misi diversi minuti, trascorsi con gli occhi sbarrati nella penombra, per capire che ero ancora nella sudicia stanza d’albergo della sera prima. Cioè, quella che io credevo essere stata la sera prima. Che giorno era? Fuori dalla finestra, la luna splendeva alta in un cielo nero più della morte. Un sogno? Era stato solamente un sogno? Impossibile! Non avevo mai fatto un sogno talmente realistico in tutta la mia vita. Mi pareva ancora di sentire il sedile di pelle bisunta vibrare sotto di me, il frastuono dei motori nelle orecchie… Toccai il letto. Era bagnato del mio stesso sudore. Provai un brivido improvviso, e indossai la camicia. I calzoni li avevo ancora addosso. Come istupidito, andai lentamente alla finestra. Il legno ruvido mi punse con una scheggia. Il dolore era reale. Anche la goccia di sangue sul mio indice era reale. La succhiai via assaggiandone il sapore. Tutto normale. Fuori il silenzio era rotto solo dal frinire degli insetti. Abbassai lo sguardo e là, nel parcheggio, lo vidi! Era buio e la luna mascherava tutto quanto con strani e violenti giochi di ombra e di luce, ma io sono certo di averlo visto. I suoi occhi lampeggiavano nell’oscurità, come perle.
Kutu! Era là, e mi osservava, come se avesse aspettato tutta la notte perchè mi affacciassi alla finestra. Il cuore sembrò saltare un colpo nel mio petto. Quando riuscii a ritrovare la voce, gridai:
– Kutu!! Aspetta!!
E mi precipitai fuori dalla stanza. Scesi le scale rischiando di rompermi l’osso del collo, e non badando minimamente al baccano infernale che stavo facendo, uscii dalla porta principale e corsi nel parcheggio. Nessuna traccia di Kutu. Era scomparso, la notte se lo era inghiottito. Forse me lo ero… Sognato?!
Sentii delle braccia afferrarmi, e mi divincolai selvaggiamente. Un tremendo frastuono mi echeggiava nella testa. Quando finalmente il personale dell’albergo riuscì a bloccarmi gambe e braccia, mi resi conto che la fonte del frastuono ero io. Urlavo. Poi persi i sensi.
Cioè, li riacquistai. Con un grido, sobbalzai sul sedile dell’aereo che mi stava portando verso casa. Il pilota si voltò indietro e mi chiese se mi sentissi male. In effetti stavo malissimo. Allora non era un sogno? E l’albergo? E Kutu nel parcheggio? Era stato quello il sogno? Tutte e due erano talmente realistici che non riuscivo a capire se fossi sveglio o se stessi sognando. Un terrore nero e senza nome mi avvinghiò l’anima. Voi non potete capire come ci si sente quando la stessa realtà comincia a non essere più tanto certa. Cosa potevo fare?
Mi pizzicai un braccio con tanta forza che gli occhi presero a lacrimare. Non poteva essere un sogno. La scena dell’albergo invece sì. Mi ero lasciato suggestionare da quel portatore nero, e il mio inconscio aveva generato un bell’incubo. Ma ora stavo tornando a casa.
Andava tutto bene.
Continuai a tranquillizzarmi da solo per un bel po’, prima di rendermi conto che avevo paura di dormire.

Massimo Borri

Altri articoli correlati

7 min read
6 min read
1 min read

Commenta