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Una riforma iniqua

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Una riforma iniqua

Se i potenti mezzi di K. ce lo permetteranno, nel numero che state leggendo nella rubrica Diritto troverete il testo per esteso del
Disegno di Legge approvato dal Consiglio dei Ministri, avente per oggetto la riforma dell’accesso alla professione di Avvocato.
Facciamo un po’ di chiarezza: sino ad oggi, chi dopo essersi laureato in Giurisprudenza, avesse voluto tentare la professione di Avvocato doveva per prima cosa rintracciare lo Studio di un professionista; accordarsi per iniziare la cosiddetta “pratica”; recarsi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dichiarare di avere cominciato a recarsi regolarmente presso tale Studio.
Di fronte a sé aveva due anni di pratica, testimoniati dal fatto che l’avvocato gli rilasciava le cosiddette firme sul libretto, e un esame finale organizzato presso ciascuna Corte di Appello, che si articolava in tre prove scritte, ed una orale.
Gli inconvenienti di tale soluzione erano e sono palesi. Chi poteva vantare parentele ed amicizie potenti, non svolgeva un solo giorno di pratica: le firme gli venivano consegnate comunque. Chi non era così fortunato da trovare lo Studio di un professionista affermato, spesso doveva svolgere anche le veci della segretaria. Di un compenso neanche l’ombra, dato che l’avvocato non era tenuto a retribuire nessuno.
Ciascuna Corte di Appello poi, gestiva l’esame come meglio credeva, con l’inconveniente che presso la Corte di Appello di Bologna si aveva una percentuale di promossi all’esame finale pari al 20-30%, presso quella di Reggio Calabria una percentuale pari al 80-90%. Il fortunato praticante ammanicato di cui sopra allora, oltre a potersi dedicare ad attività più redditizie per i due anni della pratica senza mai recarsi in Tribunale, poteva trovare un legale calabrese compiacente e superare l’esame al primo colpo. Un bel vantaggio, anche perché fra le prove scritte e quelle orali intercorreva quasi un anno, e così se si veniva bocciati lo si sapeva sempre dopo molto tempo, col rischio di perdere più di un anno.
Se si aggiunge il fatto che in Italia ci sono 88.000 avvocati, ed ogni anno le facoltà di legge sfornano 18.000 neo dottori, si ha un quadro preciso della situazione italiana. In alcune città, quali ad esempio
Modena, la percentuale di avvocati, rispetto alla popolazione, è addirittura più alta, in proporzione, di capoluoghi di regione come
Bologna.
Si rende necessaria dunque una riforma della formazione e dell’accesso alla professione di avvocato, che ne innalzi la professionalità e la preparazione, in modo da regolamentare il settore.
La soluzione indicata dal Governo Prodi, il Ministro di Grazia e
Giustizia Giovanni Maria Flick, e la commissione guidata dal senatore
Antonino Mirone del PDS, se non verranno presentati emendamenti, si risolverà però in una palese ingiustizia. Vediamo perché.
Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri, che verrà presentato alla Camera dei Deputati, prevede innanzitutto un solo restringimento, un enorme collo di bottiglia per l’accesso alla professione. Nulla di concreto è previsto per la formazione.
Gli anni di pratica sono portati a tre, contro i due precedenti. Le materie per lo scritto non sono più le classiche Diritto Civile,
Diritto Penale e Procedura Civile (o Procedura Penale), ma bensì
Diritto Civile, Procedura Civile, Diritto Penale, Procedura Penale,
Diritto Amministrativo e Processuale Amministrativo. Sei materie, contro tre. Chiunque abbia studiato presso una facoltà di
Giurisprudenza capisce che la difficoltà è più che raddoppiata. Non solo: all’orale si arriverebbe a sostenere una prova sulle sei materie precedenti, più altre sei, fra le quali Diritto Comunitario e Diritto
Tributario (!).
Un esame siffatto prevederebbe quindi una preparazione di almeno sei, otto o più mesi. Ma i casi sono due: o si è in Studio, magari a lavorare duramente per tutta la giornata, o si è a casa a studiare per l’esame. Una prova siffatta finirebbe col penalizzare solo chi la pratica la fa per davvero, non fittiziamente.
Ma non basta: l’esame non sarebbe più sostenibile oltre i quarant’anni, e le prove a disposizione sarebbero solo tre. Facciamo un esempio. Un baldo laureato di 25 anni inizia la pratica. A 28 anni, senza avere guadagnato una lira, sostiene il primo esame. Non lo supera, ritenta a 29 anni. La sua olimpica calma comincia a vacillare: se per sfortuna viene bocciato, questo è già il secondo tentativo. A
30 anni ci riprova. E’ diventato molto nervoso, è il suo ultimo tentativo. Non importa quanto ha studiato, la sua calma e la sua concentrazione non esistono più. Se non lo supera, come può effettivamente accadere con un esame simile, a 31 anni dovrà reinventarsi una professione, senza potere più diventare nella vita quello per cui ha studiato per almeno 12 anni.
Ma ancora non è finita: l’esame lo si sostiene, in periodi diversi dell’anno a Roma. Roma… Sarà sicuramente colpa della mia fervida fantasia, ma mi immagino un livello di corruzione pari solo a quello antecedente la caduta dell’Impero Romano. Come in un film di Fellini, ministri, uscieri, senatori, pescivendoli, cinematografari tutti subissati di richieste di spintarelle et similia.
Non è così che si riequilibra geograficamente l’esame. Proprio in un momento in cui poi, si agita nelle più alte sedi istituzionali il vessillo del regionalismo. Molti Consigli dell’Ordine (vedi quello di
Modena), hanno cominciato a tenere colloqui semestrali per interrogare i praticanti e verificare se materialmente svolgono la pratica. Chi non supera il colloquio, perde i sei mesi precedenti. Basterebbe poi intensificare i controlli in tutta Italia, ed anche impedire ai praticanti di andare a sostenere l’esame dove è più semplice, che tutto si regolarizzerebbe.
L’esame che si prospetta all’orizzonte invece, diventerebbe tale e quale ai concorsi che si sostengono per diventare magistrati o notai.
Con la enorme, macroscopica differenza, che se superi uno di questi concorsi, hai un posto di lavoro assicurato, con determinate garanzie.
Se un praticante, adesso, ieri o domani, supera l’esame, non ha invece alcuna garanzia. Deve trovare uno Studio, pagare le bollette, pagare la segretaria, trovare la clientela.
La realtà è che adesso la selezione è svolta in gran parte dal mercato: gli avvocati più in gamba o con particolari doti umane o più fortunati emergono, gli altri, la maggioranza, sopravvivono dignitosamente.
Occorre piuttosto aumentare la preparazione dei neo dottori, curarne la formazione; una riforma ben indirizzata non restringe drasticamente l’accesso alla professione, bensì cura la selezione e la formazione a partire dall’Università. All’estero le facoltà universitarie di Legge sono ben altrimenti, ed intelligentemente, strutturate. Sin dall’inizio prevedono periodi di affiancamento a professionisti, ad esempio, e piani di studi ben indirizzati verso uno sbocco professionale preciso.
Inoltre il patrocinio, forse il momento più formativo concretamente parlando della vecchia pratica, che ti permetteva dopo un anno di tirocinio di avere clienti tuoi, con la nuova riforma verrebbe abolito, sostituito da una delega da parte dell’avvocato. Si impedirebbe così per questa via il proliferare di studi gestiti da praticanti, ma si eliminerebbe una importante palestra per i neo laureati-praticanti.
La ciliegina sulla torta però è un’altra. Tale straordinaria riforma dal momento in cui entrerebbe in vigore, quindi potenzialmente fra qualche settimana, sarebbe suscettibile di immediata applicazione anche nei confronti di chi la pratica l’ha iniziata, ma non l’ha terminata. Esempio: un praticante inizia, prosegue per un anno o arriva quasi al temine dei due anni, e un giorno si ritrova con le regole totalmente stravolte, a dover sostenere il nuovo tipo di esame.
Sarebbe come se durante una partita di calcio, certamente un derby, dopo il primo tempo ti dicessero che non si gioca più con i piedi, ma con le mani. Una palese ingiustizia. Un tipo di riforma che è sicuramente incostituzionale, violando tanto per cominciare il principio cardine dell’eguaglianza. Non pochi laureati che avevano iniziato la pratica stanno ripensando le loro scelte. Se davanti a sé avessero avuto ben chiaro sin dall’inizio un simile Calvario, forse avrebbero intrapreso altre strade mesi fa.
I praticanti italiani, allarmati da queste proposte del Governo Prodi, si sono raccolti in un’associazione, l’Anpa, che ha raccolto migliaia di firme in tutta Italia. Ma in realtà il suo potere è nullo, di fronte alla volontà del Governo, che grazie a Rifondazione Comunista ha la maggioranza alla Camera come al Senato. Minacciare scioperi, si rivelerà sicuramente un’arma spuntata. Ogni contatto con il Ministero ha dato scarsi risultati. L’unica speranza è che qualche voce fuori dal coro, qualche deputato si alzi in piedi in Parlamento per dichiarare il proprio dissenso, e proponga emendamenti intelligenti del testo della commissione Mirone.

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Leggo sul Sole 24 Ore del 25 Settembre u.s. che P.D.S., A.N. e Forza
Italia stanno cercando di “porre un freno” alla riforma. Non so quanto questo potrà influire sull’iter parlamentare. Una cosa è certa, qualsiasi manifestazione di protesta l’associazione nazionale abbia in mente di organizzare, (o abbia organizzato, come la marcia di protesta a Milano), la stampa ne darà scarso rilievo.

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Per completezza, mi riferiscono che una riforma per certi versi analoga sia stata proposta dal Ministro della Pubblica Istruzione
Berlinguer per l’accesso alla professione di maestro elementare. Oggi occorre la laurea per insegnare nelle scuole elementari: chi si è diplomato nelle scuole magistrali quando bastava il diploma, prima della paventata riforma, avrà un breve termine massimo entro il quale sostenere e superare il concorso, altrimenti, non importa la sua età o la sua esperienza a volte anche decennale, dovrà tornare all’Università.
Non credo sia il caso di aggiungere altro…

Luther Blisset

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