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De Profundis

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De Profundis

“Terra! Sono arrivato.
E adesso?”

Silenziosamente, in sordina, da oltre i dock, dietro alle gomene sfilacciate delle bitte dei moli, avanzando nella bruma, Wilhelm K., il nostromo, si accinse ad accostare il suo rimorchiatore al pontile per l’attracco.
L’orologio di bordo era fuori fase da molto tempo. Quella città si stagliava enorme e sinistra al di là della zona portuale. Wilhelm K. non portava altro carico che i suoi pensieri, la sua memoria.
Dimenticare. Ora esisteva solo una gigantesca pagina bianca che si estendeva per chilometri e chilometri, tutto ciò che doveva ancora venire, e che forse non sarebbe mai stato. K. e il suo rimorchiatore, una sola cosa, il traghettatore traghettato, come in uno specchio non si distingueva chi stesse guardando chi. Un cielo scarlatto sovrastava le guglie di quella città turriforme. Il sole sarebbe sorto in breve tempo. L’ignoto ora aveva preso le forme di questa città portuale, che lo attendeva con un freddo benvenuto di cemento e acciaio. Wilhelm K. tentò l’attracco, ma si vide costretto a rinunciarvi. I moli infatti non costituivano una superficie, ma solo una parete divisoria non transitabile tra un numero indefinito di canali.
Wilhelm K. scrutò in profondità. I canali, compreso quello su cui si trovava, si estendevano a perdita d’occhio attraverso gli enormi edifici.
Nessuna porzione di quegli spazi sembrava essere destinata alle gambe di K. e anche attraccando, scendendo e cercando di camminare sull’esigua sommità dei setti divisori, barcollando e tenendosi in equilibrio, nessun approdo era previsto, essendo quella zona non a misura di uomo, ma di mezzo. L’acqua era torbida e straordinariamente piatta, impossibile determinarne la profondità, lo scandaglio non offriva dati apprezzabili. La bruma, come l’inverno sulla superficie di un fiume, vi impediva qualsiasi riverbero, quasi il sole in quelle acque non battesse mai.
Scrutando inquieto la superficie di quell’acqua stagnante e immobile
K. avanzò, tenendo il motore al minimo. Gli edifici cittadini sembravano ancora lontani, come se dalla curvatura dell’orizzonte ne spuntasse solo la porzione superiore. Miriadi di finestre minuscole e nere occhieggiavano.
Era freddo. I setti divisori, grigi e petrosi, scorrevano ai lati del rimorchiatore, di tanto in tanto qualche incrinatura si faceva scorgere, ciuffi di tondino arrugginito, nervature del cemento armato, ornavano la via come fiori di campo. Graffi come grida di persone raggelate nella pietra fiorivano tutt’intorno. La chiglia del rimorchiatore increspava l’acqua immobile di onde concentriche, che lambivano i setti come minuscole mareggiate, finché non sfociò in un enorme bacino, immobile anch’esso, a cui dovevano far capo tutti gli altri canali, che si estendevano da ambo i suoi lati a perdita d’occhio.
Dal pelo dell’acqua spuntavano grossi pali lignei inverditi dalle alghe e dalla salsedine, come rimasugli di un vecchio pontile di legno, lo scheletro di un antenato del porto odierno, dal cui cemento era stato conglobato, enucleato dal tempo, emarginato, ora spoglia rinsecchita destinata a sparire.
Altre tracce di imbarcazioni, non era dato vederle. Era freddo e il sole non era ancora sorto. K era tentato di invertire la rotta, abbandonare in partenza quella città ancora lontana, ma cosa lo avrebbe aspettato dietro le sue spalle? Il mare aperto, l’Oceano, le correnti, la salsedine, il vento e le tempeste, il blu che si perdeva all’orizzonte. Le sue mani restavano avvinghiate al timone, impietrite.
Fra la solitudine degli abissi, fra un oceano acqueo in cui annegare la paura ed un mare di cemento armato in cui schiantarla, il turbinare dei fluidi non era preferibile alla consistenza dei solidi, come
Scilla e Cariddi le due voragini stringevano K., tanto valeva andare avanti. Le acque del bacino erano piatte e uniformi, verde bluastro, un lago di kerosene. K. era tentato di immergervisi, vedere oltre la superficie, vedere se là sotto si nascondesse il segreto di ciò che stava osservando, ma era combattuto, la solitudine si stava facendo opprimente, più opprimente di quando i venti e le bufere lo sferzavano, di quando il mare in burrasca minacciava di inghiottirlo tra i flutti che sembravano contendersi la preda; l’improvvisa presenza di quelle guglie tortili lo faceva sentire quietamente infelice e nulla sembrava rassicurarlo, ad ogni momento avrebbe potuto invertire la rotta, afferrare il timone, ruotare la barra e riabbracciare l’Oceano, ma le sue mani, forti e aggraziate e fredde come la notte che volgeva al termine, indefesse serravano la ruota, i tendini erano fissi come cavi d’acciaio, tesi come quella superficie lacustre che lo chiamava silenziosamente.
Là sotto, la chiave di volta, ne tornerò fuori subito o mai più; le mie bombole!, presto! non c’è tempo per indugiare, le spoglie di quella città senza nome mi attendono, le mie bombole!, presto!, devo andare, adesso o mai più. Il rimorchiatore è fermo come quest’acqua non è necessario gettare l’ancora; una corda, non devo perdere il contatto con la superficie, tuta, dov’è la mia tuta?, la maschera, pinne, bombole, respirare, compensare, eccomi pronto, immersione! Ci siamo! Ora! K. si tuffò.
Le acque si contrassero, accogliendolo. K. scendeva zavorrato, avvinghiato alla corda che lo cingeva in vita, guadagnava profondità, scendeva velocemente, senza emettere bolle, e la superficie era già lontana, il cielo d’acqua era completamente opaco, il fondo non si vedeva, l’acqua non sembrava esserci, non aveva spessore, non v’era destra nè sinistra, la dimensione, in quel recesso, era assente, il puntare la torcia verso il basso si rivelò inefficace, il raggio di luce si perdeva nel nero baratro, K. era ora prigioniero dell’abisso, il silenzio era agghiacciante, nessun’onda solcava le acque; presto arrivò alla fine della corda, scendere oltre avrebbe significato perdere qualsiasi contatto con la superficie, ed era sceso molto in profondità, molto più a fondo di quanto non possa misurare in realtà un qualsiasi bacino portuale, ma la pressione dell’acqua, o di quell’elemento, non era avvertibile, in condizioni normali si sarebbe reso necessario uno scafandro; una tale assenza di pressione era senza dubbio anomala, ma il terrore che stava attanagliando K. sovrastava qualsiasi grandezza fisica, il sipario stava per calare. Il terrore di rimanere bloccato in quella dimensione senza cima ne’ fondo nè pareti lo spinse ad aggrapparsi affannosamente alla sua corda per risalire; l’oscurità sembrava non avere fine, l’ossigeno delle bombole sembrava mancare, per un’eternità gli parve di brancolare nel vuoto, finché non picchiò la clavicola contro lo scafo del rimorchiatore. K. non fece caso al dolore dell’impatto, si issò a bordo in preda al terrore, si liberò in fretta dell’attrezzatura e si buttò a terra sul ponte, fradicio e ansimante, con l’affannosa leggerezza del sapere di essere di nuovo in salvo, fuori dall’abisso. Evaporato il terrore e ripreso il controllo di sé, K. si sentì improvvisamente forte. Nell’oscurità del baratro aveva ritrovato sé stesso. Piquaker! La nuova linfa diede a K. ragione della nuova città.
La prospettiva, la vicinanza o la lontananza, le dimensioni: solo un’opinione; come un deserto di costruzioni il paesaggio cangiava da momento a momento, quegli edifici, che prima dell’immersione sembravano non avvicinarsi mai, erano ora alla sua portata, come se il vento, la corrente o chissà quale altra forza, li avessero sospinti nella sua direzione. O il contrario? K. spense il motore e la prora del rimorchiatore urtò con un tonfo smorzato lo zoccolo di cemento.
Saltò direttamente dalla sponda senza far uso della scaletta, senza nemmeno portare con sè armi o altri oggetti; era solo un presentimento, ma sentiva che non gli sarebbero serviti.
Il rumore dei suoi passi echeggiava sordamente nel silenzio assoluto circostante, nessun altro eco si percepiva, non rumore di fabbriche, non di mezzi di trasporto, non di voci di adulti nè di bambini che giocassero.
I muri erano lindi e immacolati, il vandalismo sembrava non avere attecchito, ai piedi di quell’enorme costruzione bianco-grigia, i cui piani si perdevano in altezza, e in cui non erano distinguibili finestre nè terrazze nè abitanti che vi si affacciassero, se non in confuse linee slanciate verso l’infinito.
K. guardava verso l’alto come alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui conosceva più. Ai piedi del grattacielo, un ingresso. Era un portale decisamente anonimo, due gradini soprelevavano l’androne rispetto al piano stradale, e un lungo corridoio disadorno mostrava di avere una fine. K. andava avanti, con in cuore il sentimento di colui che non ha nessun’altra possibilità se non quella di continuare. Una scala cominciava alla fine del corridoio, scala che conduceva ad un ampio pianerottolo cosparso di porte, a guisa di albergo. K. si sentiva sempre più confuso, incapace di connettere.
Non vi erano lampade nè altra illuminazione Anche le finestre latitavano.
Quell’interno sembrava avere poco o nulla a che fare con la superficie esterna. Che ci faceva lui in quel posto? Chi cercava? La forza che aveva acquisito poco prima, quel ritrovato entusiasmo cominciava a scemare, e tutto era divenuto di nuovo piatto e insignificante. K. si sedette, in preda allo sconforto. Si rannicchiò per terra puntando la schiena contro il muro, in un attacco di indecisione. Aveva freddo, l’immobilità amplificava i suoi brividi, il sentirsi sempre più remoto, al di là di tutto lo stava schiacciando. All’improvviso scattò in piedi e urlò con tutte le forze che gli riuscì di raccogliere. Il grido si esaurì nella sua violenza, svanì senza che nessuno rispondesse, senza eco ferire. K., senza esitare un altro istante, irruppe in una delle innumerevoli porte del corridoio, strattonò la maniglia ed entrò. Buio. Apparentemente buio. I suoi occhi avidi faticavano ad abituarsi all’oscurità, ma una stanza prese forma ai suoi occhi.
Quattro pareti spoglie, una nicchia, almeno in apparenza, nessuna finestra. K. si sedette appoggiando la schiena al muro. Un biancore osseo prese forma dall’oscurità, una figura, uno scheletro umano si delineò con nettezza nell’oscurità, impietrito nella stessa posizione assunta da K.. Le sue mani rattrappite di falangi ritorte e disgiunte erano sparse attorno al ricevitore di un telefono, il blocco principale appoggiato al suo fianco sul pavimento, il filo che si perdeva nella penombra della stanza, il terrore provato da K., impietrito dall’assurdità della scena, trascendeva i limiti della ragione umana, ma lo scheletro non resistè a lungo, si dissolse e inaspettatamente si vide trasfigurare, il suo corpo divenne insensibile, come se fosse stato svuotato e poi travasato in un’altra dimensione.
Si ritrovò giovane e forte, florido e dai muscoli robusti e vigorosi, la pelle brunita dal sole. Si ritrovò immerso nel verde della campagna, quella campagna in cui aveva lavorato stagionalmente da bracciante, ai tempi dell’Università, quando un lavoro pesante come quello rappresentava per lui una pausa in cui far riposare il cervello, ostacolare il decadimento del fisico e ritemprare lo spirito nel verde dei campi e dei frutteti.

continua

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