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Michel Foucault – Il potere…

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MICHEL FOUCAULT

IL POTERE NELL’ETA’

MODERNA E CONTEMPORANEA

Dalla pena di morte e le guerre

al razzismo di stato

Nel numero di aprile mi sono occupata del tema dei rapporti che legano sesso, potere e sapere, secondo quanto esposto da Michel Foucault nel suo saggio La volontà di sapere (ed. Universale Economica Feltrinelli,
1988).
Ho cercato, in quell’occasione, di riassumere il lavoro di questo importante filosofo francese, un lavoro incentrato sull’analisi delle origini, della natura e dei meccanismi di funzionamento di quel
, ideato già alla fine del XVII secolo e messo a punto nelle epoche successive, che ha funzionato come strumento in uso al potere per condizionare i comportamenti individuali e collettivi nel campo del piacere e della sessualità.

La produzione delle opere di Foucault, inclusa la già citata La volontà di sapere e gli altri testi che compongono la Storia della sessualità, si intreccia in maniera inestricabile con il suo insegnamento al Collège de France, che inizia nel 1970 e si conclude nel 1983, con la sua morte.
In particolare, il corso tenuto nel ’75-’76 affronta alcuni temi e problemi, quali il razzismo e la guerra, intesi come strumento di analisi e criterio di intelligibilità della storia e della società, che verranno ripresi anche nell’ultimo capitolo de La volontà di sapere (opera pubblicata appunto nel ’76) e che avrebbero dovuto costituire, secondo il progetto originario, l’argomento dell’ultimo volume della Histoire de la sexualité dal titolo Population et races.
Le lezioni di questo corso sono raccolte in un volume, pubblicato dalla casa editrice “Ponte alle Grazie” e curato da Mauro Bertani e
Alessandro Fontana, intitolato Difendere la società – Dalla guerra delle razze al razzismo di stato.
E’ da questo testo che intendo ora partire, esponendo i risultati conseguiti da Foucault nella sua ricerca ed evidenziando come in essi si possano individuare dei possibili e, a mio avviso, validi elementi esplicativi dell’esistenza, ancora ai nostri giorni, della pena di morte e delle segregazioni in senso lato in stati che si definiscono
“democratici” e “di diritto”.
Foucault pone, in primo luogo una distinzione fra due tipi di potere, quello sovrano della teoria classica e il nuovo potere, impostosi a partire del XVIII secolo, definito dall’autore bio-potere.
Uno degli attributi fondamentali della sovranità è il diritto di vita e di morte sui cittadini, o meglio, sui sudditi: la vita e la morte dei soggetti diventano dei diritti solo per effetto della volontà sovrana. Tradotto in altri termini, si tratta del diritto o potere di far morire e lasciar vivere, ovvero del diritto di spada, un diritto che si esercita sulla vita nella misura in cui il sovrano può uccidere.
A questo potere, dal XVII e XVIII secolo, comincia ad affiancarsene un altro, di natura opposta, che, nel XIX e XX secolo, tenderà a divenire predominante: è il potere di far vivere e di lasciar morire.
Già a partire dal Seicento alcuni giuristi cominciano a mettere in discussione il fatto che il sovrano, cui i singoli individui hanno conferito il potere assoluto su di loro al fine di proteggere la propria vita, possa esercitare su di essi il diritto di vita e di morte, ritenendo che la vita debba essere esclusa da questo contratto.
Ancora più rilevante è il fatto che, a partire dal XVII secolo, compaiono delle tecniche di potere incentrate essenzialmente sul corpo individuale, tecniche definite “disciplinari”, che hanno come obiettivo quello di aumentare la forza e il vigore dei corpi attraverso il lavoro, l’addestramento, la sorveglianza e la punizione
(si pensi all’opera disciplinare condotta da istituzioni quali la scuola, le caserme, gli istituti religiosi ecc.).
C’è poi un altro fenomeno nuovo, che fa la sua comparsa alla fine del
XVIII secolo, rappresentato da una nuova tecnica di potere non disciplinare che si applica all’uomo, non in quanto uomo-corpo, ma in qualità di uomo-specie. Questa nuova tecnologia ha per oggetto la molteplicità degli uomini, procedendo nella direzione della massificazione della società.
Mentre nel caso della disciplina si può parlare di una anatomia politica del corpo umano, alla fine del Settecento nasce una bio-politica della specie umana.
Foucault definisce la bio-politica, il bio-potere, un potere che ha come oggetti di sapere e obiettivi di controllo i problemi della natalità, mortalità e longevità della popolazione (quella di
“popolazione” è una nozione che nasce proprio con la comparsa della bio-politica, per definire un corpo nuovo, un corpo composto di molti individui).
I meccanismi di esercizio di questo tipo più recente di potere non sono più quelli del prelievo, della sottrazione, dell’estorsione di beni, servizi, prodotti, lavoro, fino al bene ultimo, la vita.
Abbiamo, viceversa, a che fare con tecnologie e meccanismi che difendono e promuovono la vita, volti a produrre delle forze, a farle crescere e ordinarle, non più a bloccarle o annientarle.
I campi di intervento del bio-potere sono dunque tutti quelli che hanno come finalità la regolazione dei processi biologici, la gestione della vita nel suo duplice aspetto di gestione della fecondità
(controllo dei flussi demografici, della natalità, della mortalità) e della morbilità (lotta alle endemie, considerate ora quale fenomeno relativo alla popolazione e in termini di costi economici per la mancata produzione che comportano e per le spese che le cure determinano).
In altre parole, il bio-potere si occupa di tutti quei fenomeni collettivi che hanno effetti politici ed economici (la vita, la natalità, gli stati morbosi, le endemie letali), fenomeni aleatori, se considerati in sé, ma che, se considerati a livello collettivo, all’interno di una data popolazione vista nella sua durata, presentano delle costanti controllabili e governabili. Compito dei meccanismi messi a punto da tale potere è proprio quello di assicurare una regolazione di questi fenomeni biologici dell’uomo-specie, al fine di garantire, all’interno di una popolazione globale, un equilibrio, delle compensazioni.
La tecnologia regolatrice della vita nata fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del successivo coesiste e si sovrappone all’altra tecnica, quella disciplinare del corpo, la cui comparsa si colloca fra il XVII e il XVIII secolo. La disciplina (potere che si esercita sui corpi individuali in forma di sorveglianza e adattamento) è, in ordine cronologico, il primo adeguamento dei propri meccanismi messo in atto da un potere, quello tradizionale della sovranità, che non era più in grado di gestire una società avviata verso l’esplosione demografica e l’industrializzazione.
Il secondo adattamento, la bio-politica, risultava più complesso poiché interessava i fenomeni di popolazione, i processi biologici della società e implicava, dunque, l’esistenza di organi più complessi di coordinazione e centralizzazione.
Schematicamente, si può associare alla disciplina del corpo le istituzioni (polizia, scuola, famiglia, istituzioni religiose, istituzioni mediche ecc.) e ai meccanismi regolatori della popolazione lo stato, anche se ciò non esclude che i due meccanismi possano trovarsi ad agire contemporaneamente, articolandosi l’uno sull’altro.

E’ quanto accade – per fare un esempio che ci riporta al tema del precedente articolo – nel campo della sessualità, che, non a caso, ha acquisito un’importanza fondamentale a partire dal XIX secolo, in quanto essa dipende, da un lato, dalla disciplina del corpo (si pensi ai controlli sulla masturbazione dei bambini e sul sesso della donna) e, dall’altro, dalla regolazione della popolazione. In altri termini, la sessualità si costituisce sia come oggetto della disciplina che come principio della regolazione, in virtù dei suoi effetti di procreazione (ricordo che fra le linee di intervento del dispositivo di sessualità individuate da Foucault ne La volontà di sapere, accanto alla disciplina del corpo femminile e alla pedagogizzazione del sesso del bambino, vi è anche la regolazione dei flussi demografici e il controllo delle nascite e la psichiatrizzazione delle perversioni).
Una dimostrazione eloquente della posizione chiave assegnata alla sessualità, che si colloca esattamente a metà fra corpo e popolazione,
è costituita dalla teoria della degenerazione: una sessualità indisciplinata e irregolare ha due ordini di effetti, uno sul corpo, che viene colpito da tutte le malattie individuali causate da essa, e uno sulla popolazione, in quanto chi è traviato sessualmente danneggerà anche i propri discendenti per diverse generazioni.
Un altro elemento che consente di connettere disciplina e regolazione
è la norma, dato che essa si può applicare tanto ad un corpo da disciplinare quanto ad una popolazione cui si voglia imporre una regola.
Sulla base di questo assunto Foucault sostiene che la nostra società contemporanea, nella quale si è imposto un potere che ha preso possesso della vita, dal piano organico fino a quello biologico, dal corpo alla popolazione, è una società normalizzatrice, dove la legge, il diritto tradizionale (la cui arma più estrema è la morte) funziona sempre più come una norma (che ha, invece, come oggetto la vita).
Poste queste premesse sulle origini e le caratteristiche del potere attuale, vediamo ora di capire, sempre seguendo l’analisi del nostro autore, come si collocano la morte e i razzismi in rapporto ad esso.
Il nuovo tipo di potere, divenuto predominante nella società moderna e contemporanea, ha fra le sue manifestazioni caratteristiche quella di escludere la morte, la quale, dalla fine del XVIII secolo, si è vista progressivamente sottratto il suo carattere di cerimonia pubblica sfolgorante, a cui partecipava tutta la società, per divenire sempre più un evento privato e vergognoso, da nascondere al pubblico.
Fino a che ha prevalso il potere tradizionale di sovranità, la morte doveva la sua alta ritualizzazione al fatto che essa rappresentava il passaggio dal potere del sovrano terrestre a quello del sovrano celeste, nonché il momento della trasmissione del potere dal morente ai suoi eredi.
A partire dal momento in cui il potere si è dato il compito di far vivere o di respingere la morte, di intervenire sul modo di vivere e di controllare tutti gli avvenimenti aleatori legati alla vita, la morte diviene il termine, il limite del potere, ciò che si colloca al di fuori delle sue prese e su cui il potere non ha modo di agire, se non in termini globali, statistici (in quanto mortalità).
Il suicidio, che, nei secoli anteriori al XVIII, era un crimine perché rappresentava una usurpazione del diritto di morte che solo il sovrano terrestre o celeste poteva esercitare, nel XIX secolo diventa uno dei temi principali oggetto di indagine e analisi medico-sociologica, proprio perché in questo atto si rivela un diritto individuale e privato di morire, vissuto come inquietante da un bio-potere, rispetto al quale tale diritto si colloca ai margini.
All’interno della società normalizzatrice, in cui agiscono quelle tecnologie di potere che hanno come oggetto e come obiettivo la vita, acquistano un nuovo significato e una nuova giustificazione anche la guerra e la pena di morte ovvero, più in generale, il diritto di uccidere e la funzione omicidiale del potere.
Nel diritto di sovranità classico la guerra era lo strumento di cui si serviva il sovrano per conservare il proprio potere: egli esercitava il suo diritto di far morire per garantirsi la propria esistenza.
Una condanna della guerra nella sua forma di strumento per la difesa degli interessi e del potere del sovrano comincia ad essere espressa esplicitamente nel Settecento da filosofi e scrittori illuministi, quali Swift o Rousseau. La guerra, a partire da questo momento e ancor più nei due secoli successivi, può trovare una sua giustificazione solo se fatta in difesa della vita della collettività, della popolazione.
Per poter esercitare il diritto di uccidere, di far uccidere, di esporre alla morte non solo i propri nemici ma anche i suoi cittadini il bio-potere ha ideato un meccanismo peculiare che è il razzismo.
Con tale termine Foucault intende designare quel dispositivo che consente di introdurre, nell’ambito della vita che il potere ha preso in gestione, una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire, di creare delle cesure all’interno del continuum biologico.
Il razzismo, inoltre, genera una relazione di tipo biologico fra la mia vita e la morte dell’altro, nella misura in cui la messa a morte, l’imperativo di morte, nel sistema del bio-potere diventa ammissibile solo se tende non alla vittoria sugli avversari politici, ma alla eliminazione del pericolo biologico e al rafforzamento, direttamente collegato a questa eliminazione, della specie stessa o della razza.
L’introduzione di questo meccanismo ha permesso di rendere accettabile la messa a morte, intesa sia nella sua forma estrema di uccisione diretta (pena di morte) che in tutte le altre forme di morte indiretta
(l’esporre alla morte o moltiplicare il rischio di morte di alcuni individui, oppure la morte politica, l’espulsione, il rigetto, la segregazione dei “diversi”).
La necessità delle guerre, le colonizzazioni, la criminalità, la malattia mentale, le differenze fra classi sociali, a partire dal XIX secolo, sono state pensate nei termini dell’evoluzionismo inteso in senso lato (gerarchia della specie, lotta per la vita tra le specie, selezione che elimina i soggetti meno a adatti) e, quindi, del razzismo.
E’ grazie alla teoria evoluzionista e ai meccanismi del razzismo che è stato possibile perpetrare il genocidio colonizzatore o eliminare (se non in termini di morte fisica, sicuramente in quelli di morte sociale) i malati mentali, i pervertiti, in una parola, i “diversi”.
La guerra oltre che strumento per distruggere la razza avversa che rappresenta per noi un pericolo biologico, costituisce anche un mezzo per rigenerare la propria razza, fatto questo che costituisce una novità assoluta impostasi dalla fine del XIX secolo.
Quanto alla criminalità, se essa ha cominciato ad essere pensata nei termini del razzismo, ciò è accaduto dal momento in cui, all’interno delle tecnologie del bio-potere, occorreva dare la possibilità di mettere a morte un criminale oppure di eliminarlo.
La pena di morte, che, insieme alla guerra, costituisce una delle forme del diritto di spada, alla quale si faceva ricorso per colpire chi violava la legge del sovrano o ne minacciava la persona, negli ultimi due secoli è progressivamente decaduta e si è potuta conservare solo in virtù del meccanismo giustificativo che presenta i condannati a morte come un pericolo biologico per la specie, la cui eliminazione consente il rafforzamento e la proliferazione della razza.
Si può dunque affermare che l’instaurazione e l’attivazione del razzismo – non inteso come semplice e tradizionale disprezzo o odio delle razze le une per le altre o come operazione ideologica di cui si serve uno stato o una classe per indirizzare verso un avversario ideale le ostilità altrimenti rivolte verso di loro – siano la condizione di base per il funzionamento del vecchio potere sovrano del diritto di morte in una società dove si è inserito e sovrapposto un potere che ha preso in carico la vita.
Sulla base di queste premesse, osserva Foucault, diventa comprensibile come e perché gli stati più omicidi siano anche i più razzisti.
Tale affermazione trova, in effetti, riscontro nella nostra realtà contemporanea.
Penso, per citare un esempio, al culmine del razzismo di stato raggiunto nella Germania nazista, dove si è assistito allo scatenamento parossistico del potere omicida dello stato e di tutta la società, con l’obiettivo di annientare le altre razze (la soluzione finale), e al suicidio assoluto della propria razza, alla sua esposizione alla morte, come mezzo per rigenerarla definitivamente quale razza superiore.
Mi riferisco, altresì, agli stati socialisti, che non solo non sono stati in grado di criticare e liberarsi dal bio-potere – e dal razzismo implicito in esso- ma, anzi, lo hanno ripreso e sviluppato.
Infine, un esempio attuale, che colpisce perché si tratta della più potente e importante democrazia occidentale: gli Stati Uniti.
Qui, in alcuni stati federati, è tuttora in vigore la pena di morte, la forma più estrema e cruenta di messa a morte presente nella nostra società. Sul tema dell’utilità della pena di morte è in corso da anni un acceso dibattito sia all’estero che all’interno del paese, dove sono ancora molte le voci a favore della pena capitale.
Non mancano certo le denuncie e gli appelli per la sua abolizione da parte di intellettuali, giuristi, uomini di cultura e di spettacolo, ma la maggioranza dei cittadini statunitensi rimane favorevole ad una funzione omicida dello stato, motivata dal fatto che l’eliminazione del criminale rappresenta un beneficio non solo per le vittime del reato, ma per la società nel suo complesso, che viene in tal modo liberata da un “pericolo biologico” per la specie.
Sul persistere dell’istituto della pena di morte nel sistema giuridico statunitense si possono individuare anche motivazioni di natura politico-giuridica, legate alla struttura democratica ed elettiva della giustizia americana. Tuttavia, volendo rimanere legati al discorso più propriamente storico-filosofico sin qui affrontato, non si può fare a meno di osservare che in questo paese, forse più che negli stati europei, il razzismo, ovvero la separazione fra le razze, la cesura nel continuum biologico di cui parla Foucault, sono molto evidenti, non solo in termini di contrasto fra etnie diverse, ma anche fra classi sociali e culturali differenti.

Sandra

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