KULT Underground

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In the evening (II)

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In the evening (II)

Killa! Shoota!

Don’t THINK!

Don’t THINK!

8.45.E’ un po’ che guardo fuori da questa maledetta finestra. C’è il solito sole spento e quello schifo di nuvole grigie che sembrano promettere pioggia senza far mai niente di serio. Il braccio mi fa un male cane, e Giovanna, quella stronza dell’infermiera mi ha portato via le mie pillole. La musica è a tutto volume nelle orecchie, ma non ci salto fuori. Dio, è come se mi stessero girando uno spiedo rovente nel braccio.
Penso che non è giusto, cioè, non è giusto. Quell’idiota di Max doveva coprirmi e invece… Roberto se ne è beccata una in fronte, e lui sicuro non ci pensa più, ma in questo momento non so che cosa è meglio, se stare qui in questo letto a guardare il cielo sentendo un male cane, o essersene andati via per sempre, senza dover più pensare a niente di niente.
9.23. Max è arrivato a trovarmi con un sorriso peggiore del solito.
Quasi penso che dovrebbero mettere lui su un letto e legarlo, invece di tenere inchiodato me in questo posto.
`Ciao Bianco’ dice, saltellando da un piede all’altro come se dovesse andare in bagno.
`Ciao Max’ gli dico, e sono indeciso se insultarlo o no. Ha gli occhi completamente fuori di testa. Non so che cosa ha preso ma giuro deve essere veramente pesa.
`Ciao Bianco’ ripete e si mette a ridere come un idiota. Dietro di lui intravedo Maddalena, sulla soglia. Fanno entrare solo uno alla volta in questo ospedale? Mi guarda con la sua faccia stanca, ed i suoi occhi mi bucano un po’, come al solito. Muovo la mano del braccio sano per salutarla, e un dolore incredibile all’altro mi fa bestemmiare.
Lei abbozza un sorriso stanco, poi si fa indietro.
C’è anche Mic, con una specie di sigaro in bocca che mi squadra come se fossi un animale, e mi fa un cenno con la mano come per dire `tutto a posto’. Un cazzo tutto a posto! Io ho un braccio fuori uso, Roberto mi è crollato tra le braccia neanche venti ore fa. Per non parlare poi di Tony, giù in Piazzola, insieme all’altro, com’è che si chiamava,
Carmine?
Dio, sta andando tutto da schifo…
`Ehi Bianco’ Max ridacchia come se gli stessero facendo il solletico.
`Che c’hai Max?’ gli urlo `Che cazzo hai da ridere, brutto idiota? Mi dovevi coprire, hai capito? Ci potevo rimanere anch’io!’ Stringo i denti per il dolore. Mi basta muovermi appena un attimo per sentire quest’inferno.
`Mic dice che è tutto apposto. Sistemeremo tutto, non ti preoccupare’
Lo guardo senza avere ancora la forza di urlargli contro. Ho il cuore che mi batte a mille e mi pulsa in testa come un cannone.
`Mic dice che adesso ci pensiamo noi, sai?’ Max allarga il lungo cappotto scuro che aveva in dosso e mi fa vedere una cosa strana legata allo stomaco, grande come un giornaletto, e spessa come una scarpa. Max ci batte la mano contro e mi fa sentire come il suono sia vagamente metallico.
Continua a ridere come un matto, ed io ho una gran voglia che se ne vada via, e mi lasci in pace.
11.52. Giovanna entra nella stanza con un piatto di brodo, o qualcosa del genere. `Come va?’ dice. Ha dei lunghi capelli scuri che le scendono sulle spalle, e un bel sorriso, ma in questo momento mi sembra Maddalena. Mi sembra una che ne ha viste troppe, e che ha già chiuso lo stomaco a tutto e a tutti, e che ti passerebbe sopra con un camion senza pensarci due volte, se questo fosse il suo lavoro.
Si ferma a due passi dal letto, con il piatto che manda un fumo appena percettibile, e un odore forte di verdure cotte.
`Allora? Sei morto?’ Non sta giocando.
`Si’ dico io. `Si, sono morto, perchè non si vede? Ti sembro uno che sta da Dio?’
Lungo il corridoio si sente il rumore di una barella, ed il vocio continuo di dottori ed infermiere.
`Biondo, vedi di capirlo subito. Se fosse per me ti lascerei crepare per la strada, con quel tuo braccio sanguinante, e la gamba rotta, ma c’è qualcuno qui che sta pagando perchè ti si dia la possibilità di riprenderti un po’, prima di tornare la fuori a farti ammazzare. Ma dammi un solo motivo per farti stare male, e giuro che non ci penserò due volte’.
La guardo in faccia, ma poi non ci salto fuori a reggere lo sguardo.
Non ci salto fuori a fare niente. Cioè il braccio, Roberto, tutto… non ho più voglia di stare qui, non ho più voglia di niente.
Giro la testa dall’altra parte, lentamente, e riprendo a contemplare il cielo. Voglio solo dormire.
`Con il braccio in quelle condizioni non ce la fai a mangiare da solo,
Biondo. Perciò gira la testa e apri la bocca, e fallo in fretta, perchè se no te ne resti a stomaco vuoto fino a domani.’ La sua voce mi sembra distante, come fosse filtrata da una nebbia che c’è solo nella mia testa.
`Dammi le mie pastiglie’ le dico, `sto male.’.
`Come vuoi’ risponde, `se non vuoi mangiare, pazienza. Ci sei tu nei casini, non io.’
Sento i suoi passi allontanarsi decisa da me, poi uscire dalla stanza.
Lo stomaco borbotta un po’, ma l’unica cosa che sento è la voglia di andare via da lì, la voglia di scappare via.
15.30. Sono riuscito a dormire un po’, penso. Il braccio mi fa un po’ meno male, ed in compenso, come era prevedibile, la fame invece è aumentata. Il cielo si è un po’ schiarito, ma fa ugualmente schifo lo stesso. Forse sono i vetri polarizzati, penso. No. E’ il cielo che fa proprio schifo.
Mi sembra quasi di rivedere riflesso nei vetri il viso di Roberto qualche istante prima che la sua testa diventasse un’ammasso di sangue. Non l’ho sentito urlare. E’ crollato per terra senza un suono…
Chiudo gli occhi un attimo e stringo i denti. Non so cos’è ma la testa si è messa a ronzarmi come se ci fossero dei calabroni dentro. Ho bisogno delle mie pillole, penso, ma lo stomaco dice che non è l’unica cosa di cui ho bisogno.
Cerco di tirarmi a sedere, ma il braccio inizia immediatamente a urlare tutto il suo apprezzamento per la manovra, e quindi ci rinuncio.
15.35. Giovanna si affaccia dalla porta, guardandomi con qualcosa che non so se definire disprezzo o pietà. Quando si accorge che anch’io l’ho vista, entra di qualche passo nella stanza, si mette le mani sui fianchi e sbotta “Ohi, biondo, non mi dirai che hai fame, no?”
“Si”, dico io. Si, ho fame, e vorrei riuscire a dormire. Ma in questo momento la testa ha iniziato ad andare per conto suo. E sono di nuovo dietro al cancello dello stabilimento, con Roberto che mi dice di non muovermi, perchè ha sentito un rumore.

Sono le undici e mezza, e non c’è un cane in giro. Troppo freddo per andare in giro in maglietta, ma troppo caldo per una giacca, anche senza maniche. E’ piovuto tutto il pomeriggio, e adesso le buche del pezzo sterrato che ci separa dal cancello secondario sembrano tanti piccoli laghetti, illuminati dalla luna. In lontanza il suono del treno, e quello più cupo dei camion in tangenziale, sono poco più di un bisbiglio tra i rumori che provengono dallo stabilimento. Mic ha detto che i macchinari funzionano anche di notte, in automatico.
Max, venti metri più sulla sinistra, sta guardando il muro di cinta.
Non è troppo alto, e se non fosse per il filo spinato, forse, si potrebbe anche scavalcare.
“John” mi fa Roberto. “Che c’hai?” dico io.
Roberto ha una giacca di lino scura, macchiata in più punti, e con uno strappo dietro. I suoi lunghi capelli castani si muovono scompostamente, sospinti dal vento tiepido che anima questa sera, e i suoi occhi guizzano a destra e a sinistra come se si aspettassero di vedere qualcuno.
“Non hai sentito niente?” mi chiede. Io lo guardo male. Dio, Mic mi ha smollato un pivello che se la sta già facendo sotto. Mi viene quasi voglia di alzarmi in piedi e fargli vedere come questo nostro procedere cauti sia semplicemente routine. Mic ha detto che non c’è nessuno nello stabilimento a quest’ora. Nessuno.
“Non hai sentito quei passi dietro il cancello?” bisbiglia. “No”, rispondo con voce normale, solo per il gusto di vederlo sobbalzare.
Mi fa cenno con il dito di tacere, e di rimanere dove sono. Mi giro e do un’occhiata a Max, che intanto ha tirato fuori il walkman dalla tasca e se lo sta mettendo nelle orecchie. “Perfetto”, penso. “Ecco uno che non si preoccupa.”

“Ehi, che ti succede?” Giovanna mi si avvicina rapidamente e mi prende il polso del braccio sano. “Hai due occhi da far schifo.” mi dice, girandosi per prendere qualcosa dal comodino di fianco al letto.
Dovevi vedere quelli di Max, penso.
Con un fazzoletto mi asciuga la fronte ed il viso. Non mi ero neanche accorto di essere sudato.
“Mi sa che hai un po’ di febbre. Sta tranquillo, è normale nelle tue condizioni.”
“Io sono sempre tranquillo.”
Lei sorride, e mi tocca leggermente il braccio ferito facendomi gridare.
“Si, si vede che sei un duro.”
15.52. Alla fine Giovanna mi ha portato un po’ di brodo caldo, ed io lentamente l’ho mangiato. Ho sempre odiato il brodo, ma questa volta questa roba verde bollente non mi ha fatto schifo. Forse la fame, o il freddo che sento in questo momento.

Ci sono io, e c’è Mic. Sempre così. Lui con la giacca con tutte le tasche piene, e il sigaro corto in bocca, l’orologio che sembra d’oro, e la maglietta dei Rolling Stones, ed io dall’altra parte, a far finta di ascoltare, a far finta di capire.
“Ci sei?” Mic è seduto sulla vecchia scrivania del capannone. C’è troppo freddo, e la stufa appena accesa non serve a niente. Il calendario è rimasto a Giugno con la solita bionda mezza nuda, e le palme di cartone come sfondo.
“Uhm…” faccio io, giocherellando con il coltellino svizzero di Mic.
Mic si ferma un attimo, e si guarda in giro, come per cercare il filo del discorso.
“Vedi questo?” dice, e tira fuori dal cassetto un piccolo affare bianco con due cavi.
Io alzo gli occhi senza rispondere. Penso, dai, Mic, mollati, dimmi cosa vuoi e non menartela.
Mic rigira tra le mani la scatoletta e sorride. “Me l’ha venduto uno dei nostri amici qualche giorno fa. L’ha “presa” da una cassa nei magazzini della vecchia fabbrica Fiat, alla Sacca.”
“E allora?” Max è fuori al freddo ad aspettare L’orologio digitale da due soldi sulla scrivania segna le 15.20 ed io ho una gran voglia di uscire da questo posto. Forse era meglio se non venivo. Posso trovare i soldi anche da qualcun’altro, no?
“E allora, tu, il tuo amico e qualcuno dei miei ragazzi nuovi, questa notte, me ne andate a prendere degli altri.”
Lo guardo storto. E’ solo una stupida scatoletta bianca.
“E’ un lavoretto semplice. Marco ha detto che è stata una passeggiata.
Non c’è nessun controllo. I macchinari funzionano da soli tutta la notte, e qualcuno deve aver pensato che questo bastasse a tener lontana la gente dai capannoni.”
Mi gratto il naso e dico “E io quanto ci prendo, per questa
“passeggiata” tutta da ridere?”.
Mic sorride e appoggia il sigaro sul grosso portacenere di vetro.
“Mi piaci quando parli così, piccolo. Mi ricordi me quando avevo la tua età.”
Sì, fanculo, penso io, sei il solito bastardo.

“Guarda che se non apri la bocca, non entra. O non sai più come si fa?”
Giovanna ha cambiato di nuovo tono di voce. Le ci vuole un attimo per alterarsi, e quindi mi affretto a buttar giù anche quest’altra cucchiaiata.
“Grazie” dico. Non so cosa pensare di lei.
Mi guarda un po’ come se mi stesse sezionando, poi si alza dal mio letto e si stira la gonna con le mani.
“Vedo che le buone maniere te le hanno insegnate, dopo tutto, biondo.”
Poi recupera tovagliolo e asciugamano e si dirige verso il corridoio.
“Ehi…” dico.
Lei si ferma, senza girarsi e risponde “No, amico, adesso non ho tempo.”
E’ uscita. Sono di nuovo solo in questa stanza, con la luce ormai bassa, ed il fischiare del vento nelle orecchie. Giro la testa lentamente da un lato, e chiudo gli occhi.
16.03. Il vento continua a comporre strani motivi con i rami storti degli alberi. La testa mi sembra che ogni tanto diventi pesantissima, come se qualcuno me la schiacciasse contro il cuscino. Ma se sto fermo fermo, il braccio non mi fa male.
E la gamba? Giovanna ha detto che me la sono rotta, ed io con il braccio che mi toglie il fiato non sono ancora riuscito a capire se riesco a muoverla oppure no. Guardando le coperte in effetti sembra che la mia gamba sinistra sia più grossa dell’altra…
16.40. Sto ripensando a Max, e a quella strana cosa che aveva legata allo stomaco. Non so, sembrava una specie di pacchetto bislungo, forse un po’ simile ad un pezzo di un giubbetto antiproiettile. Chissà cosa ha voluto dire con “adesso ci pensiamo noi”.
17.12. Mi sveglio urlando di dolore.
“CRISTO!” Di fianco a me ci sono tre uomini in divisa. Il più giovane, con i capelli neri, un paio di occhiali con l’intelaiatura in metallo, e un brutto taglio lungo la guancia destra mi ha preso il braccio è ha cominciato a stringere.
“Ben svegliato.” dice, mollando la presa. Guarda gli altri due sorridendo.
Continuo a gridare piegato in due per il dolore. I tizi in piedi hanno dei fucili in mano, e la scritta bianca GAAS sul petto.
Giovanna, altre infermiere ed il dottore sono sulla porta in silenzio.
“Eh piantala, bastardo” mi urla uno dei tre colpendomi allo stomaco con il calcio del fucile.
“Crepa” gli sputo io. “Crepa, figlio d’un cane.”
Cerco di girarmi verso di lui, ma il dolore al braccio è troppo forte.
Il bastardo se la ride come un matto, e mi colpisce di nuovo sulle costole.
Cerco lo sguardo di Giovanna, ma nei suoi occhi non vedo niente che mi piaccia vedere.
18.40. I pulotti se ne sono andati qualche minuto fa, e adesso le infermiere ed il dottore sono entrati nella stanza per vedere come sto. Dio, devo essere uno spettacolo unico. Sento il sangue colarmi in bocca dalla fronte, e lo stomaco come se mi avessero preso sotto con un camion. Se prima la testa mi faceva male, adesso penso di stare impazzendo.
“Sei un figurino, biondo” dice Giovanna.
Non ho la forza di girarmi, e penso proprio che siano lacrime quelle che mi stanno uscendo ora dagli occhi.
Dio, non è giusto! Non è giusto che le cose vadano in questo modo.
“Ehi, guardate, il bimbo piange!”
“Oh, sì, povero piccolo!”
Stringo i denti e chiudo gli occhi. Voglio andare via. Voglio andare via. Voglio andare via.
20.12. Ormai è una vita che fisso il soffitto. Il tempo mi sembra non passare più. Il dolore va e viene. La rabbia resta e cresce, e ogni volta che ricordo una voce, o che penso a qualcosa, sento che mi sale dentro un odio che non riesco a controllare. Ho la mano del braccio sano avvinghiata alle coperte e sento quasi le unghie conficcarsi nel palmo. Ho voglia di urlare, di gridare, di distruggere tutto quanto.

“Zzt”, vola come una zanzara nella notte estiva. E vedo un buco grande un dito nel bidone davanti a me. Roberto si ferma un attimo impietrito e non sa cosa fare. Lo sento ansimare, sento quasi il suo cuore battere all’impazzata. Lo sa che ha solo un secondo, un secondo solo per muoversi, un secondo solo per fare la cosa giusta. Si gira verso di me con la bocca aperta, gli occhi ormai folli dalla paura, e io mi alzo e correndo cerco di avvicinarmi a lui. Ha le mani sciolte lungo i fianchi, i capelli che si muovono al vento, le gambe che tremano…
“Zzt”, vola come una zanzara nella notte estiva. La testa di Roberto si fa indietro un po’, un foro sulla fronte, nessun suono. “Cristo” dico, non sapendo neanch’io se sussurrare o urlare. Faccio appena in tempo a prenderlo che crolla all’indietro dentro ad una pozzanghera.
“Cristo” dico, pensando che adesso sono io il bersaglio, in mezzo a quello niente di niente fatto da qualche bidone, mille pozzanghere e un muro lontano come la Cina.
Guardo la faccia insanguinata di Roberto, con quell’ultimo respiro lasciato a metà, poi lo lascio cadere e mi metto a correre di lato.
“Zzt” E io dico che non lo so se mi ha colpito, Dio non lo so se mi ha colpito, ma adesso devo correre correre correre finchè ho fiato perchè
Mic ha sbagliato passeggiata, e io ci sono in mezzo come una formica nera in una vasca bianca.
Inciampo in non so cosa, rotolo per terra. Il cuore mi batte come un martello, e mi continuo a spostare in mezzo al fango pronto a sentire il prossimo “zzt” dentro alla testa. E mentro corro, o rotolo, non so, sento gridare, sento degli spari, sento che il mondo va per la sua strada ed io per la mia qui in mezzo al fango. Ed io per la mia qui in mezzo a questo schifo…

Marco Giorgini

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